CORAGGIO AMERICANO, SERVILISMO NOSTRANO


CORAGGIO AMERICANO, SERVILISMO NOSTRANO


GIUSEPPE SACCO



Negli Stati Uniti sembra essersi aperta una fase che potremmo definire introspettiva, di analisi dei propri errori. E si inizia ad ammettere di aver tenuto comportamenti che hanno finito per offrire ai Talebani una forma di riconoscimento.

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“I Francesi – ha scritto in un tweet Edward Luttwak – possiedono capacità militari che superano di gran lunga la posizione della Francia nella gerarchia dei paesi in termini di Prodotto Interno Lordo.  E ciò per molte ragioni: un’industria militare molto sofisticata e la persistenza di valori marziali nelle classi elevate. Il danno fatto lasciando che [negli Stati Uniti] la lobby dei fabbricanti di sottomarini si impadronisse della strategia può, e deve, essere corretto”.

Il riferimento è – ovviamente – alle conseguenze del vero e proprio colpo di scena che è stata la nascita dell’AUKUS, un’alleanza finalizzata all’accerchiamento della Cina e di integrazione militare tra USA e Inghilterra da un lato, ed Australia dall’altro. Ma dalla quale è stata invece esclusa la Francia, che vorrebbe invece avere un ruolo in Oceania ad Estremo Oriente, così come (probabilmente perché troppo pacifista) è stata esclusa la Nuova Zelanda, che era invece parte dell’alleanza precedente, l’ANZUS, che esisteva dal 1951, ed era stata firmata addirittura da Harry Truman.

Con la nascita di questo nuovo blocco militare, una specie di NATO del Pacifico, ha infatti coinciso la decisione di un coordinamento dell’apparato militare australiano con quello americano, e quindi la brusca cancellazione, da parte di Canberra, di una gigantesca commessa, affidata alla Francia, di sottomarini a propulsione diesel: una umiliazione politica ed una perdita economica gravissima per Parigi. Da cui la furibonda reazione del Presidente francese, che è giunto sino a richiamare in patria il suo Ambasciatore a Washington: una misura estrema, certamente eccessiva, che però ha suscitato – non solo in America, ma anche in Europa – un’ondata di ironie e sberleffi nei confronti delle sopravvissute ambizioni imperiali della sorella latina e del suo irresistibilmente antipatico Presidente.

 Un caso significativo

 Edward Luttwak è invece intervenuto andando contro corrente. Ed è stata, la sua, una delle rare voci favorevoli a Macron che sia giunta sino a quei pochi Italiani che, prescindendo dai propri sentimenti personali, si occupano con serietà di questioni internazionali. Cosa non facile, e scarsamente apprezzata in un paese dove i tuttologi applaudono con riflesso pavloviano a tutto quello che sembra loro venire dalla “voce del padrone”.

E infatti vi è giunta non perché sia stata ripresa dai media o dai personaggi della politica, ma solo perché Luttwak ha molti contatti on line, ed un rapporto personale e culturale con il nostro povero paese; in cui ha trascorso la propria infanzia, dopo che la sua famiglia, per sfuggire alle persecuzioni razziali dei Tedeschi e dei loro alleati romeni, aveva trovato rifugio in Sicilia; e in cui gode di un rispetto e di una popolarità quasi servile.

Il coraggio del politologo e storico militare americano di andare contro corrente non è però – in questa fase –  una sua caratteristica esclusiva. E’ invece parte di un fenomeno politico-culturale che sta rapidamente emergendo nel mondo intellettuale degli Stati Uniti, e che contrasta in modo assai interessante con gli atteggiamenti prevalenti sulla sponda orientale dell’Atlantico.

 La reazione degli Europei e – quel che più ci riguarda – degli Italiani agli avvenimenti che, in rapidissima successione, hanno conferito il carattere di una vera e propria fase svolta alla tarda estate del 2021 è stata infatti nettamente diversa da quella degli Americani.  Da noi, nel momento in cui si chiudeva la ventennale era della “war on terror” e si apriva quella della guerra – che forse sarà fredda, ma più probabilmente rischia alla fine di essere guerreggiata – contro la Cina, era tutto uno “stramaledire” i Talebani che avevano immediatamente ripreso il controllo dell’Afghanistan abbandonato dalle truppe di Washinton, e in cui si era letteralmente squagliato il governo fantoccio che la loro occupazione militare aveva fatto nascere.

Negli Stati Uniti si è invece spontaneamente aperta una fase che potremmo definire introspettiva, una fase di analisi dei propri errori. E si riconosce apertamente di aver tenuto comportamenti che hanno di fatti finito per offrire ai Talebani una forma di riconoscimento. Così, mentre il quotidiano di Torino, La Stampa, ha fatto ricorso – per fare accettare ai propri lettori ubriacati di propaganda, l’idea che si potesse trattate coi “malvagi”, cioè coi vincitori finali di quella ventennale guerra – nientemeno che ad Agnese Moro, Biden ha apertamente detto, dopo l’attacco suicida che ha fatto duecento vittime, tra cui tredici soldati americani di “contare sull’interesse” dei Talebani a che gli Americani se ne andassero, e quindi sul fato che essi avrebbero continuato “to generate their action” a protezione della ritirata americana.

Oggi in America la discussione investe tutta la vicenda afghana. Vengono ovviamente prese criticamente in considerazione le scelte effettuate quando, per reazione al dramma dell’Undici settembre, George “Dubya” Bush decise di invadere il paese che aveva appena prima sconfitto i Sovietici, e che si supponeva offrisse asilo e protezione a Osama bin Laden. Ed è questo – quello del perché l’Afghanistan venne originariamente invaso – un tema che investe non solo aspetti di politica internazionale, ma anche questioni –  che probabilmente verranno gradualmente alla luce – di equilibrio, all’interno degli Stati Uniti, tra poteri  politici costituzionalmente eletti, e lobbies, istituzioni “umanitarie” e “filantropiche” di ogni tipo.

Ma dalla critica sono ancora più apertamente investiti anche gli errori commessi nel decennio successivo, quando Bin Laden era già stato eliminato, eppure l’occupazione continuò con l’inverosimile pretesa di trasformare l’Afghanistan in una imitazione dell’America, o meglio in un’imitazione dell’immagine propagandistica che l’America degli anni duemila vorrebbe proiettare di se stessa; senza prestare sufficiente attenzione al dato storico che mostra come questo fosse un paese cui l’ ostinata volontà della popolazione di restare se stessa, aveva fatto conferire dall’opinione mondiale pre-globalizzazione lo straordinario nomignolo di “tomba degli Imperi”.

Davvero cosi innocenti  ?

Gli Americani stanno insomma provando a rispondere alla domanda posta – anzi lasciata sfuggire, quasi con inconsapevolezza – qualche anno fa da una personalità oggi caduta in disgrazia, e ormai praticamente innominabile: “ma davvero credete che noi siamo così innocenti”.

E la risposta è piuttosto incoraggiante. Basta notare – tra i moltissimi esempi possibili – come lo scorso 12 Settembre, sulle sei colonne della prima pagina del New York Times, le quattro centrali fossero occupate, da un unico titolo i cui caratteri cubitali erano disposti su due righe: “La macchia della politica di tortura persiste dopo vent’anni”. E l’America, spiegava il sottotitolo, “è ancora alle prese con le conseguenze degli interrogatori brutali”. L’articolo occupava inoltre mezza fittissima pagina all’interno. E a pagina 10 il premio Nobel Paul Krugman dava un pesantissimo giudizio sul funzionamento del sistema politico del proprio paese, qando spiegava di avere la sensazione che “molti rimpiangono i giorni in cui la minaccia sembrava venire da fanatici stranieri, e non da estremisti politici nati e cresciuti in casa”. Di che rimettere in dubbio tutte le interpretazioni ufficiali dell’Undici Settembre.

Gli “aurei momenti” di unità nazionale che avrebbero fatto seguito a quella tragica giornata – egli continua – “non sono mai esistiti. Sono un mito, che abbiamo bisogno di smettere di perpetuare se vogliamo capire la terribile situazione in cui si trova la democrazia americana. La verità è che una parte cruciale del corpo politico americano ha fin dal primo momento visto l’Undici Settembre non come un momento per cercare l’unità nazionale, ma come un’occasione di cui impadronirsi a fini di vantaggio politico interno”.

E due giorni dopo, in prima pagina sullo stesso quotidiano, Thomas Friedmann, si chiedeva “come fosse stato possibile che una grande potenza chiamata America, partita per rendere il Medioriente più simile a se stessa, facendogli abbracciare il pluralismo e la prevalenza del diritto, era invece finita per diventare essa stessa come il Medioriente, imitandone i peggiori abiti tribali e introducendo un nuovo intero livello di illegalità nella politica nazionale.”

©Giuseppe Sacco20210920

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