L’ANNO DELLA GUERRA RUSSO-UCRAINA
L’importanza delle conseguenze economiche dello scontro militare ed economico in Ucraina che ha caratterizzato l’anno che si chiude, non ha bisogno di essere dimostrata.
Esse sono sotto gli occhi di tutti, così come è chiara allo stato attuale, a fine 2022, la sostanziale assenza di ogni dimensione diplomatica e negoziale. Si tratta di conseguenze che erano in gran parte prevedibili. E che sono state anche previste, pur se non forse con le stesse caratteristiche e nella stessa misura da parte dei diversi soggetti convolti.
Naturalmente, non si scopre nulla di più che già risaputo, quando si dice che la guerra, ogni guerra – così come anche la semplice preparazione alla guerra, nella logica “pacifista” del si vis pacem para bellum – implica, per definizione, la destinazione a fini distruttivi, o almeno improduttivi, di un certo quantitativo delle risorse economiche ed umane degli Stati che sono – o che temono di essere – coinvolti in un conflitto. Risorse economiche ed umane che potrebbero altrimenti essere allocate alla produzione di beni e servizi da destinare alla fruizione da parte della popolazione nazionale, ovvero al commercio con l’estero.
Quest’ultimo (che è notoriamente ostacolato e danneggiato da ogni guerra, o anche da un semplice “clima internazionale” che si teme possa portare ad una guerra) è peraltro anch’esso produttore di ricchezza. Trasferendo beni e servizi da paesi in cui essi sono più abbondanti in paesi in cui essi sono più scarsi, e quindi aumentandone di fatto il valore, il commercio determina sempre – a meno che ad esso non vengano imposti artificiali fattori distorsivi – una allocazione più razionale, a livello planetario, delle risorse disponibili. Si traduce cioè in benefici di cui godono non solo le donne e gli uomini la cui vita è regolata dagli Stati in questione, ma tutta la popolazione mondiale.
Ciò è stato estremamente evidente nel periodo della c.d. globalizzazione, la cui stagione va all’incirca dal 1979, quando la Cina si apre al mondo, sino alle chiusure dovute alla pandemia. Gli scambi di capitali e di merci tra l’Occidente e paesi fino ad allora semi autarchici, come era soprattutto la Cina, hanno coinciso con una lunga epoca se non di pace, almeno con un’epoca in cui i conflitti hanno avuto prevalentemente carattere regionale. Ed hanno inoltre determinato una lunga fase di crescita senza inflazione, hanno fatto uscire circa un miliardo di uomini dalla povertà estrema, ed hanno fatto profilare la possibilità di una redistribuzione del potere a livello mondiale.
L’arma delle sanzioni
Questa elementare evidenza mentre in luce come anche gli strumenti della guerra economica, ad esempio le sanzioni che oggi vanno così di moda, portino ad una pura, semplice ed enorme distruzione di ricchezza, anche sotto forma di distorsione nella allocazione non solo degli investimenti, ma anche soprattutto dei benefici e delle occasioni economiche tra i vari soggetti, individuali e collettivi, che formano le società che gli Stati sopra menzionati dovrebbero governare e proteggere.
Eppure, “le sanzioni sono state a lungo l’arma diplomatica preferita dagli Stati Uniti. E ciò anche se non sono mancati gli ammonimenti tanto sui loro effetti negativi quanto sulla rapida erosione della loro efficacia, in seguito agli accordi già raggiunti tra i paesi sanzionati, che stanno portando alla nascita di aree commerciali internazionali dove il dollaro non ha più il suo sinora ineludibile ruolo.
Già nel 1998, lo stesso Presidente americano Bill Clinton aveva commentato negativamente il fatto che il governo degli Stati Uniti fosse diventato altrettanto “sanctions happy” – cioè, pronto al ricorso alle sanzioni – quanto una gran parte della sua popolazione si dimostrava “trigger happy”, pronta a l’uso delle armi da fuoco.
Questa popolarità dello strumento sanzionatorio nell’azione diplomatica non è tuttavia priva di senso e di benefici. Perché si tratta di misure che riempiono un vuoto spesso pericoloso tra dichiarazioni diplomatiche che talora lasciano il tempo che trovano e sanguinosi interventi militari. E, di questi ultimi, gli elettori degli Stati Uniti hanno, negli anni più recenti, dato prova di essere stanchi.
Eppure, ancora trentatré anni dopo la notazione di Bill Clinton, la risposta della amministrazione Biden all’invasione russa dell’Ucraina ha seguito la prassi delle sanzioni, senza curarsi – almeno in apparenza – delle conseguenze negative che avrebbero potuto prodursi nello stesso Occidente. Washington, seguita a ruota da quasi tutti gli alleati, e ad occhi chiusi dai burocrati di Bruxelles, ha immediatamente imposto a Mosca “pacchetti” su “pacchetti” di misure punitive.
Propaganda e polemiche
Nella complessa questione della collocazione internazionale dell’Ucraina – questione cui solo ora si cerca una soluzione facendo ricorso ad una guerra guerreggiata, ma che risale in realtà agli anni successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica – di sanzioni si è fatto largo uso, tanto contro la federazione russa quanto da parte di Mosca, che ha immediatamente posto in essere delle contro-sanzioni.
Sotto un profilo politico-propagandistico, questa situazione consente attualmente a Mosca di sottolineare vivacemente, ogni volta che può farlo, come le misure che avrebbero dovuto spingerla a comportamenti più moderati, abbiano invece non solo danneggiato (e attualmente continuino a danneggiare) in primo luogo i paesi dell’Europa occidentale, che essi siano o meno membri dell’Alleanza Atlantica. Ma anche come li danneggino più di quanto esse non abbiano portato a risultati economici negativi per la stessa Federazione Russa, la quale sembra invece trarre partito dal forte aumento dei prezzi internazionali degli idrocarburi – e delle sostanze energetiche in generale – che è stato determinato dalla guerra in atto in territorio ucraino, o che ha perlomeno coinciso con essa.
Altrettanto chiaro è poi che il Cremlino, sottolineando come il danno delle sanzioni abbia colpito, e continui a colpire, soprattutto i paesi europei, tenda a far passare l’idea che si tratti definitiva in una strategia americana volta soprattutto contro l’Europa. Soprattutto contro la Germania, che negli anni di Angela Merkel, e del suo predecessore Schroeder, aveva seguito l’idea di un sviluppo economico non solo forte, ma anche più sostenibile ed equilibrato di quello attuale; uno sviluppo che passava attraverso una sostanziale integrazione (fondata sulla palese complementarità delle risorse) con l’economia russa. Ed era sottinteso che si trattasse di n’idea temibile, dal punto di vista di Washington, anche se meno ambiziosa ed esplicita di quella a suo tempo concepita dal grande banchiere Alfred Herrhausen, che avrebbe di fatto reso la Germania l’erede economica del blocco sovietico.
Le tensioni russo-polacche
Del conflitto, che la rivista Limes – vera e propria “bibbia” dei cultori di geo-politica nel nostro paese, ha definito “la guerra russo-americana” d’Ucraina – esistono, oltre alle conseguenze evidenti che sono state provocate dalla sovrapposizione e dall’intreccio delle sanzioni contrapposte, altri e differenti tipi di risultati, che è molto difficile non considerare negativi; conseguenze che appaiono in tutta le loro evidenza se si guarda all’impatto che la tragedia dell’Ucraina ha avuto sugli altri paesi della zona.
Anche a voler limitarsi a quegli effetti che vanno oltre la semplice applicazione del rozzo criterio del post hoc ergo propter hoc, cioè il criterio della immediata successione temporale – che sarebbe però difficile considerare frutto del caso – l’impatto del conflitto sulle decisioni prese da tali paesi è facilmente visibile.
Si tratta di conseguenze che si possono verificare senza grande sforzo di analisi. Basta guardare al caso della Polonia, che può, in un certo senso essere considerato – e non da oggi – il “paese-termometro” delle febbri che agitano l’Europa centro-orientale. Un paese che il suo attuale governo, ed una parte non trascurabile dell’opinione pubblica, ha per buona parte degli ultimi cento anni, visto come l’antemurale occidentale nei confronti della Federazione russa. La quale viene – essa – attualmente percepita come non solo come revanchiste rispetto al passato ruolo internazionale dell’URSS, ma addirittura espansionista dal punto di vista territoriale.
Questa parte dell’opinione polacca e ancor più il suo attuale governo sembrano ritenere oggi possibile un’estensione dei combattimenti al loro territorio. E ne ha dato la prova provata l’incidente della caduta di un missile molto probabilmente russo, ma che tutte le parti in conflitto si sono precipitate, con un’unanimità che non può non far sorridere, a dichiarare di origine ucraina.
Un problema a quattro soluzioni
I Polacchi si sono perciò impegnati in una politica di armamento che si potrebbe definire forsennata, se questo termine non avesse una implicazione critica, cioè se non implicasse un giudizio politico scettico, o almeno dubitativo, sulla valutazione particolarmente allarmata che governo di Varsavia ha sempre fatto, della minaccia militare russa, in questo primo scorcio di secolo.
Un sano scetticismo sul fondamento e sulla ragionevolezza dei timori della Polonia non sarebbe fuori posto nell’immediato, data la odierna appartenenza di Varsavia alla Nato, che non può che scoraggiare chiunque volesse intervenire militarmente in territorio polacco. Ma tali timori non apparirebbero molto incongrui in una valutazione di lungo periodo, e se si tenesse presente la situazione in cui si è in passato trovata la Polonia. Una situazione in cui si sono duramente applicate, e sembrano ancora validamente applicarsi, le quattro alternative suggerite da un ragionamento geopolitico. Da un ragionamento, cioè, oggi molto alla moda.
La Polonia essendo geograficamente collocata, in maniera più infausta che ogni altro paese dell’Europa centro-orientale, tra due grandi nazioni storicamente caratterizzate da un’ambiziosa vocazione imperialista, questo rozzo teorema geopolitico spiega – in una certa misura – quello che in passato è stato un idem sentire ormai profondamente radicato nell’insieme del pur composito popolo polacco.
Quando la Russia è forte – dice questa schematizzazione geopolitica – mentre la Germania è debole, la Polonia e condannata al dominio russo. Nel caso opposto, quando la Germania è forte e la Russia è debole, alla Polonia spetta il dominio tedesco. Nella storicamente frequente situazione in cui la congiuntura politica internazionale vede entrambe le nazioni – quella russa e quella germanica – inquadrate in potenti strutture imperiali o statuali, la Polonia è inevitabilmente spartita tra i suoi grandi ed agitati vicini. Solo nelle rare congiunture storiche in cui le vicende della lotta per l’egemonia in Europea hanno contemporaneamente visto russi e tedeschi in un momento di debolezza, la Polonia può vedersi attribuita non solo la forma ma anche la sostanza di uno Stato indipendente.
Dopo il Settecento, questa congiuntura storica si è verificata solo all’indomani della prima guerra mondiale; quando l’impero russo, in preda ad una violenta rivoluzione sociale aveva nel Marzo 1918 accettato la umiliante pace di Brest-Litovsk con gli “Imperi Centrali,” e poco prima che questi nel giugno dell’anno successivo fossero costretti a riconoscere con la disastrosa pace di Versailles, la loro sconfitta.
In seguito, dopo un entre deux guerres che in terra di Polonia fu più di guerre che di pace, dopo una nuova – breve, ma tragica – spartizione tra nazisti e Sovietici, e dopo quasi mezzo secolo di forzata appartenenza al blocco dell’Est, una sorta di “indipendenza” della Polonia si concreta solo con la crisi del mondo comunista, quando la potenza di Mosca è ai minimi termini e la appena riunificata Germania è ancora largamente condizionata dalle conseguenze del proprio recente passato.
Troppo grandi o troppo piccole?
E’ tuttavia la minaccia russa che, nella presente fase di indipendenza – che pure è cominciata con la dissoluzione del blocco sovietico, seguìto a ruota dalla decomposizione dell’Urss – rimane prevalente, in modo assai negativo, nell’immaginario collettivo polacco. Anche perché in coincidenza con l’inizio del nuovo secolo, la Russia, ancorché privata di enormi porzioni del proprio impero, aveva ritrovato la via della crescita economica e della riorganizzazione statuale.
Essenziale in questo quadro è il fatto che l’eredità sovietica abbia consentito alla Federazione russa di essere dotata di un armamento nucleare comparabile, per alcuni aspetti secondari più sofisticato di quello gli stessi Stati Uniti. Ma non è più la superpotenza del passato. E non è neanche una potenza veramente in grado di sostenere una nuova Guerra Fredda con gli Stati Uniti. Ma rimane una potenza troppo ingombrante per abitare in quella pacifica casa comune europea che era stata sognata da Gorbaciov. E finisce, come la Germania, per essere – per usare una celebre espressione di Henry Kissinger – troppo piccola per il mondo, ma troppo grande per l’Europa. Soprattutto troppo grande per il suo vicino occidentale, la Polonia, appunto.
La cattiva prova data dall’esercito russo di terra nella guerra d’Ucraina spinge però oggi i Polacchi ad una più complessa e articolata visione delle minacce che – nella “angoscia da spartizione” che a giusto titolo ancora oggi li perseguita – essi vedono incombere da Est. Ed è per questo che il partito oggi al potere a Varsavia è parso soffrire di un calo di popolarità. Ed infatti – in un tentativo di recuperare consensi alle elezioni dell’anno prossimo – sta incominciando ad indirizzare un nugolo di strali propagandistici contro il suo vicino occidentale, la Germania.
Una svolta “epocale”
Ci si potrebbe chiedere, al momento in cui il rigido inverno delle steppe ha pressoché paralizzato la feroce guerra che si combatte lungo il confine russo-ucraino pre-1954, se gli strali che, a partire dall’autunno dell’anno appena giunto a termine, sono stati rivolti da Varsavia contro la Germania del Cancelliere Scholz siano davvero tanto pesanti e gravi quanto si dice.
E la risposta, soprattutto per il significato simbolico di quegli strali, non può che essere allarmante. Non tanto per i due soggetti politici in questione, che al momento non corrono alcun rischio di guerra, ma per l’Europa nel suo insieme. E soprattutto per il grande e generoso progetto politico europeista che – come ebbe a constatare lo stesso Altiero Spinelli già ai primi anni ’70 del secolo scorso – ha finito per essere affidato alla burocrazia di Bruxelles, più che ai popoli del “piccolo capo” che dall’Asia si sporge verso occidente.
Pesante e grave al punto di lasciar increduli risulta il fatto che il governo di Varsavia si sia spinto, da qualche mese a questa parte, sino a chiedere a Berlino, dopo ottantatré anni dalla rottura della pace in Europa, il rimborso dei danni per la guerra scatenata dai nazisti, e dai loro complici russi, contro la fragile Polonia della fine degli anni trenta. Una richiesta peraltro irrealizzabile, dato che somma implicata ammonterebbe a circa il doppio del prodotto interno lordo della Polonia. Ma un indubitabile segno del “carattere paranoico” – per riprendere la celebre formula di Richard Hofstadter – della lotta politica in Polonia, dato che l’opposizione, guidata dall’europeista Donald Tusk, è stata obtorto collo costretta a sostanzialmente piegarsi.
In questa ennesima conseguenza della guerra d’Ucraina, in questo improvviso aumento della temperatura misurata da quel “termometro” est-europeo che è la Polonia, ci potrebbe però essere anche dell’altro. Ci potrebbe essere un riflesso del fatto che forse, nel Vecchio Continente, in aggiunta al minorato Stato successore dell’Urss, la Federazione russa, si possa cominciare a pensare che esista un altro paese “troppo piccolo per svolgere un ruolo mondiale, ma troppo grande, ingombrante ed iperattivo per il quadro europeo”. E che questo paese sia la Germania. Che è poi il paese che ha originariamente ispirato questo concetto.
Solo tre giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, non solo gli osservatori abituali degli
sviluppi politici internazionali avevano infatti cominciato a scorgere qualche inequivocabile segno che induceva a pensare come anche la Germania avesse deciso di volgere lo sguardo verso il passato, così come una Polonia, improvvisamente memore dei danni subiti nella Seconda Guerra Mondiale, era tornata a guardare la propria storia.
Lo si è fortemente avvertito quando, iI 27febbraio 2022, il neo-Cancelliere tedesco Olaf Scholz, in un discorso per molti aspetti insolito di fronte al Parlamento tedesco, ha presentato a sorpresa i nuovi obiettivi di politica estera del paese di cui egli è alla guida.
Dopo aver definito l’invasione dell’Ucraina come la causa di una Zeitenwende, una svolta
Epocale, non solo nella storia europea bensì in quella mondiale, Scholz ha infatti diffusamente parlato soprattutto del nuovo ruolo militare del proprio Paese. E a questo fine, egli ha annunciato un massiccio aumento della spesa per la difesa, rompendo con la scelta fatta dalla Germania di Bonn nella fase conclusiva della guerra fredda, di non dare sostegno alle forze armate dell’alleanza se non ben al di sotto del 2% richiesto dagli alleati della Nato. Al tempo stesso, ha però annunziato anche lo stanziamento di 100 miliardi di euro da spendere per le forze armate, ma al di fuori del bilancio nato. Una decisione, questa, che nel giro di pochissimi anni farà della Germania la quarta potenza mondo per spesa militare, dopo Usa, Cina e Russia.
Wandel durch Handel
Sotto il profilo politico internazionale, ciò significa soprattutto che, come conseguenza della guerra d’Ucraina (o forse solo prendendola a pretesto) la Germania di Scholz ha abbandonato la dottrina ufficialmente assunta dopo la Guerra Fredda relativamente ai rapporti con il mondo russo; dottrina che si riassumeva nello slogan propagandistico (Wandel durch Handel). Di favorirne la crescita, l’occidentalizzazione, e l’integrazione “grazie al commercio”. Una politica che si è peraltro dimostrata estremamente conveniente per gli ambienti tedeschi del business e per le aziende grandi divoratrici di energia.
I forti rapporti commerciali stabiliti tra Russia e Germania grazie a questa linea politica erano facilmente riusciti nel 2014 a sopravvivere allo scossone provocato in Europa centro-orientale dalla “rivoluzione colorata” di Maidan e alla conseguente annessione russa della Crimea. Ma ciò non è stato più possibile di fronte alle negative conseguenze che la guerra
ucraina sta avendo per la Russia.
Se lo slogan del Wandel durch Handel ha perciò dovuto essere rapidamente abbandonato, non è detto però che ne debba scomparire anche il concetto, o almeno l’ispirazione. Nel senso che Berlino, sempre come conseguenza della guerra ucraina, ha visto diventare grandissimo il già preminente interesse a sviluppare un nuovo rapporto di questo tipo non più nel ristretto àmbito europeo, bensì in un quadro mondiale. Non più nei confronti della Russia, bensì con la Cina, i cui legami con l’economia tedesca sono ormai molto più importanti, soprattutto assai più diversificati, di quelli che la Germania riunificata sia mai riuscita a stabilire con Mosca. E neanche ad immaginare, dopo la violenta eliminazione di Herrhausen, fatto a pezzi da una bomba appena ventuno giorni dopo la caduta del Muro di Berlino.
Ed è questo ormai un elemento da prendere in attenta considerazione nell’analisi delle conseguenze della guerra d’Ucraina. Tanto più in presenza, come accade attualmente, di non trascurabili segnali di una evoluzione della questione di Taiwan. Segnali che fanno pensare ad una possibile ripetizione dello schema diplomatico e militare già visto in Ucraina sino al 2021,e che ha portato alla tragica decisione di Putin di lanciare la cosiddetta “operazione speciale”.
Per quanto riguarda l’Europa, Scholz ha certo sottolineato il sostegno della Germania alla Unione Europea, affermando anzi che il vecchio continente rimane “il nostro quadro d’azione”, Ma senza diffondersi sull’argomento. Il che deve indubbiamente suonare come un messaggio per gli Europei, perché non pensino – dopo i disastri e i dissensi provocati nel quadro continentale dalla guerra d’Ucraina, e dopo l’ascesa di Berlino ad un rango militare capace di farla pesare nella nuova Guerra Fredda mondiale ormai promessa per i prossimi anni – di essersi sbarazzati della Germania, così come Francia ed Inghilterra ebbero ragione di pensare all’epoca della tarda espansione coloniale, quando Bismark mostrò il proprio disinteresse dicendo che, era ”la Russia, l’Africa dalla Germania”.
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