I RAGAZZI DELLO “JUS SOLI”


I RAGAZZI DELLO “JUS SOLI”


GIUSEPPE SACCO



Come dimostra il caso della giovane pakistana Saman Abbas, si è troppo tollerata la formazione di comunità chiuse, spesso a carattere criminale, di cui sono vittime i più fragili tra gli stessi immigrati.

Di loro avevamo letto o sentito parlare infinite volte, citati  a fini demagogici ed elettoralistici – oppure come poco costosa prova di progressismo – nei programmi di varie forze politiche e di singoli aspiranti a cariche pubbliche. E li avevamo poi visti sistematicamente dimenticati, quando si era trattato di tradurre in legge, ed in misure concrete, tanta decantata benevolenza verso di loro. Ma infine, negli scorsi giorni, a favore dei minori di origine straniera, ma cresciuti, educati e spesso anche nati in Italia,  si è finalmente espressa una voce di tutt’altra autorevolezza ed affidabilità, quella del quotidiano dei vescovi italiani.

Di questa componente della popolazione che vive nella penisola, l’Avvenire ha tratteggiato un profilo sintetico, ma che ne mette bene in luce l’indiscutibile peso specifico e la grande importanza che essa avrà nel nostro futuro collettivo. “Sono più di un milione i minori di origine straniera residenti nel nostro Paese. Un numero in crescita (+15,6% tra il 2012 e il 2018), a fronte di un forte calo generalizzato della natalità. Si tratta di bambini e ragazzi – l’11% dei minorenni che vivono in Italia – che, nella stragrande maggioranza, frequentano la stessa scuola dei loro coetanei italiani, parlano la medesima lingua, giocano insieme, hanno uguali speranze, paure e fragilità legate all’età”. …. Molti di loro sono arrivati in Italia solo dopo la nascita, altri, quelli di ‘seconda generazione’ sono nati sul suolo italiano da genitori stranieri”.

E’ inevitabile riconoscere in questo profilo anche quello di Saman Abbas, la giovane di origine pakistana che orgogliosamente si definiva Italian girl, e che per questo è stata probabilmente massacrata dalla sua stessa famiglia d’origine, in nome di un barbarico “senso dell’onore”. Ciò senza che lo Stato italiano, cui pure ella si era rivolta, riuscisse a proteggerla, anche perché – in nome della tolleranza relisiosa e culturale – si è troppo spesso tollerata la formazione di comunità chiuse, spesso a carattere criminale, di cui sono spesso vittime i più fragili tra gli stessi immigrati.

. Particolare valore acquista perciò, in questo tragico quadro d’attualità, la connotazione negativa – pur se assai sobriamente negativa – che trapela quando l’Avvenire aggiunge: “Ma, in base alla legge, non possono essere cittadini italiani.”

L’ intervento del quotidiano dei vescovi italiani non è da trascurare. L’ora potrebbe dunque essere venuta in cui l’impegno etico e civile abbia il sopravvento sulla viltà e l’opportunismo che, su questo tema, ha sinora caratterizzato il comportamento della stragrande maggioranza di coloro che si occupano di politica. E che sono veri i fattori che hanno sinora impedito l’approvazione dei progetti di legge relativi all’introduzione dello jus soli, o – meglio ancora – di uno jus culturae che, indipendentemente dal fatto che una parte di questi giovani provengano da famiglie islamiche, prenda in considerazione non solo la durata della  loro presenza sul territorio della Repubblica, ma anche – come valore non già discriminatorio, bensì aggiuntivo – l’italianità del loro bagaglio culturale, acquisito tanto nella scuola quanto nei processi sociali spontanei.

Le obiezioni che in qualche caso vengono avanzate contro questa acquisizione demografica sono infatti estremamente deboli. Esse si fondano sugli ipotetici rischi per la sicurezza che potrebbero derivare dalla piena integrazione nella società in cui tutti questi giovani sono cresciuti si sono formate.  Obiezioni che non tengono infatti conto della  ormai più che consistente presenza – senza che sia manifestato nessun particolare problema di sicurezza – di comunità predominantemente islamiche nel nostro paese, anche se prive di cittadinanza formale; comunità molto meno socialmente integrate e culturalmente assimilate  di quanto non siano questi “nuovi italiani”.  Così come analogamente non si  tiene conto del fatto che la maggior parte di questi giovani si comporta con grande lealtà nei confronti del paese in cui vive, e come  se già fosse pienamente ed ufficialmente italiana. Si sentirebbero probabilmente come defraudati di un riconoscimento dovuto qualora i progetti di legge relativi allo jus soli o  allo jus culturae venissero  indefinitamente procrastinati, o dovessero addirittura perdersi nei meandri di un parlamentarismo deteriore.

Chi teme comportamenti devianti, o addirittura tentazioni terroristiche, in questi ragazzi cresciuti  in Italia farebbe probabilmente meglio a temere tali devianze  come risultato di aspettative deluse e di un frustrato desiderio di italianità.

Avvenire indica,  tra le personalità più attivamente e concretamente impegnate in questo campo, l’ex Sottosegretario alla Pubblica Istruzione Marco Rossi-Doria. Si tratta di un cognome che non può non suonare favorevolmente all’orecchio di chi è convinto del fatto che la piena e legale integrazione di questo milione di “nuovi italiani” nella nostra società costituirà un fattore fortemente positivo, sia sotto il profilo etico che da un punto di vista dei risultati, oltre ad un non insignificante elemento di contrasto alla nostra decadenza demografica. Perché ricorda il nome di un’altra personalità, lo studioso ed antifascista Manlio Rossi Doria, suo padre, il cui impegno nella preparazione e nell’attuazione concreta della riforma agraria all’indomani della Seconda Guerra mondiale fornì un non piccolo contributo all’integrazione nella nostra società di un gran numero di uomini e di donne che ne era escluso per l’estrema povertà e marginalità. Il cui passaggio dal bracciantato agricolo alla piccola proprietà coltivatrice costituì un elemento di progresso cui la piena accoglienza di un milione di nuovi Cittadini della Repubblica potrebbe, in una certa misura,  risultare in definitiva comparabile.

Giuseppe Sacco

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