Siria: il costo del non far nulla

Siria: il costo del non far nulla


Mercurino Gattinara



L'orrore va guardato in faccia

Guerra civile o lotta contro terroristi infiltrati ? La discussione terminologica su come definire la tragedia siriana sarebbe ridicola e insulsa – basta pensare che a sostegno della tesi di Damasco è intervenuto persino Beppe Grillo – se non fosse il segno di una leggerezza che, data la tragedia che si svolge tra Latakya, Homs e Damasco, può legittimamente essere considerato un pretesto per un’inerzia criminale. Ed offre uno scoraggiante segnale negativo sulla possibilità che la comunità internazionale, e le sue diplomazie, riescano a trovare una soluzione a questo conflitto estremamente sanguinoso, e che dura ormai da oltre un anno.

Anzi offre la prova che gli Occidentali non sono neanche in grado, anzi non cercano nemmeno, di capire cosa accade in Siria. Tutta l’attenzione è infatti polarizzata sul complesso intrigo internazionale – in primo luogo mediorientale, ma non solo mediorientale – che su questa tragedia si è cinicamente innestato.

I ribelli – in poco più di un anno passati da sporadiche manifestazioni di protesta alla sottrazione di intere parti del territorio al controllo governativo – sono chiaramente sostenuti ed armati da alcuni paesi arabi, sunniti o a predominio sunnita, come l’Arabia Saudita. Il governo centrale, che poggia sulla minoranza alawita, piccola ma assai potente, cui appartiene il clan degli Assad, è invece sostenuto dall’Iran sciita. E dietro i due campi si profilano addirittura la Russia e la Cia, come ai tempi della Guerra Fredda.

Nella Piana di Houla, nel villaggio di Taldou, il 25 maggio sono stati massacrati 108 civili disarmati, di cui 49 bambini

A un livello di minore superficialità, la vicenda appare più complessa e più lugubre. Grazie alle meticolose indagini del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (http://www.faz.net/aktuell/politik/arabische-welt/syrien-eine-ausloeschung-11784434.html), sulla terribile strage della Piana di Houla, dove – nel villaggio di Taldou – il 25 maggio sono stati massacrati 108 civili disarmati, di cui 49 bambini, sembra accertato che le vittime siano tutte Alavite e Sciite. Le TV Al Jazeera and Al Arabiya, controllate rispettivamente dai governi del Qatar e dell’Arabia Saudita avevano invece imputato queste atrocità alle truppe alavite del governo.

Questo singolo episodio, per quando feoce, ovviamente, non giustifica in nulla la criminale condotta del governo e dell’esercito alavita, che sottopone a bombardamenti ininterrotti la città martire di Homs, dalla popolazione sciita e politicamente assai vicina ai Fratelli Musulmani, dove già Hafez Assad, il padre dell’attuale presidente, massacrò 30.000 persone. Questo episodio fa solo capire che la guerra civile siriana è ormai una Guerra di sterminio, come sono sempre le guerre tribali.

La guerra tra tribù non può infatti avere come obiettivo la sottomissione e l’annessione della tribù sconfitta al dominio politico del capo della tribù vincente. La tribù è infatti fondata sulla parentela, e la mancanza del legame di sangue impedisce ogni forma di assimilazione o integrazione. Si combatte insomma solo per strapparsi il territorio di caccia, la sorgente d’acqua, o il bestiame, ma non è logicamente possibile che si facciano prigionieri i nemici se non per ridurli in schiavitù, cioè in una condizione simile a quella del bestiame. Ma questo, l’opinione pubblica internazionale odierna lo consente poco, ed ancor meno l’ONU. Perciò, oggi, l’unico possibile sbocco della guerra tribale è lo sterminio del gruppo sconfitto

Lo stupro, come arma di guerra, trova la sua forza distruttiva nel fatto che la tribù è un gruppo fondato sulla parentela, a differenza della Nazione, che è fondata sull’unità culturale e linguistica.

Violentare le donne del nemico significa perciò talora annetterle, coi loro figli, alla tribù vincitrice (come nel Ratto delle Sabine), oppure semplicemente appestarle con sangue alieno, col risultato che la società sconfitta si sfalda.

E‘ il comportamento tenuto dall’esercito francese in Italia durante la seconda guerra mondiale, quando gli ufficiali scomparvero per 48 ore e i goumiers, le truppe tribali marocchine (“goum” in arabo/berbero vuol dire “famiglia”) furono lasciate libere di fare la guerra “selon la coutume”.

Anche le donne, che nella società tribale-patriarcale sono considerate – alla pari del bestiame – preda del vincitore, possono però nella guerra tribale avere un destino particolare. Esse vengono violentate dai membri della tribù avversa al fine di contaminarle col seme di un’altra “razza”, e fare così in modo che la loro stessa tribù, e i loro stessi mariti, le rifiutino e le espellano dal gruppo.

Importare la democrazia?

In teoria, la Siria è una Repubblica laica, ma il fattore religioso e settario è di gran lunga predominante nella vita della società, e nel modo in cui i Siriani identificano se stessi. La maggioranza della popolazione (74 %) appartiene alla confessione islamica sunnita, anche se essa si divide al suo interno tra Arabi, Turchi e Curdi, sulla base cioè di quella che, in Europa, si chiamerebbe la nazionalità, e della lingua. Gli Alaviti, che si chiamano così perché seguaci del quarto Califfo, Alì, sono una setta minoritaria del mondo sciita, e costituiscono circa il 10 percento della popolazione – includo il clan del President Bashir al Assad.

I Cristiani di varie denominazioni ammontano ad un altro 10 percento della popolazione siriana e, in generale, sono favorevoli al governo della minoranza alavita per paura dello schiacciante peso dei Sunniti. Gli Ebrei e i Drusi costituiscono il 3 per cento, anch’esso timoroso di un dominio della maggioranza sunnita.

A questo blocco anti-sunnita di tutte le minoranze si uniscono gli stranieri che vivono sul territorio siriano, il cui peso non è trascurabile: circa mezzo milione di Palestinesi ed altrettanti rifugiati dall’Iraq in guerra.

Il carattere etnico-religioso dei soggetti politici presenti nel paese spiega bene le difficoltà che incontrerebbero i tentativi – peraltro assai rari e poco convinti – di avviare in questo paese strategicamente importante nel rovente quadro mediorientale una vita democratica sul modello occidentale dell’alternanza tra partiti, come si è cercato di fare in Iraq dopo l’abbattimento di Saddam Hussein.

Nei paesi, in cui per ragioni storico-geografiche i partiti sono espressione di clan, di sette, di gruppi a base religiosa, di confraternite, la vita democratica come la concepiscono gli europei, e come essi credono che tutti la debbano concepire, incontra una difficoltà obiettiva e difficilmente superabile.

Nei paesi a regime democratico, cioè in Europa e negli Stati Uniti, alla base dell’accettazione delle decisioni della maggioranza e del rispetto per le istituzioni e al loro funzionamento, c’è il concetto dell’alternanza: un meccanismo psicologico strettamente legato al carattere “di opinione” delle forze politiche.

La possibilità che un partito risultato minoritario in una consultazione elettorale ne accetti democraticamente il risultato risiede nella possibilità e nella speranza di prendersi la rivincita nel giro di qualche anno.

Ma ciò esiste solo quando il gioco politico si fonda sulla concorrenze tra programmi, politiche, leaders; perché è questa caratteristica delle forze politiche che garantisce la possibilità per la minoranza di oggi di diventare maggioranza domani. Ed è questa possibile alternanza che porta la minoranza ad accettare di essere governata dalla maggioranza.

In paesi come la Siria, o – ad esempio – come lo stesso Iraq post Saddam, i partiti perdenti da una consultazione elettorale non possono invece sperare fare meglio alla successiva tornata elettorale.

Nella misura in cui essi non sono partiti di opinione come quelli dei paesi occidentali, che chiedono ed ottengono consensi convincendo gli elettori della bontà delle proprie proposte, ma essendo invece etichette che raccolgono voti sulla base di fattori immutabili come l’origine tribale, o la setta religiosa di appartenenza, tali forze politiche sono praticamente condannate dalla natura stessa del loro consenso ad uscire inevitabilmente sconfitte, o inevitabilmente vittoriose, da ogni consultazione elettorale.

Il precedente irlandese

Questa fondamentale alterazione del contesto in cui è possibile il gioco democratico, cioè il potere politico fondato sulle elezioni, non è esclusivo del mondo mediorientale. Casi come questo si verificano anche in Europa. Ad esempio, nel Regno Unito, e in particolare nell’Ulster, dove a lungo si sono fronteggiati due partiti dalla forza pressoché immutabile nel tempo, quello della maggioranza protestante e quello della minoranza cattolica.

Ed infatti, in queste tormentate province dell’Irlanda, la consapevolezza che una parte – quella cattolica – sarebbe risultata eternamente perdente dal punto di vista politico, perché numericamente minoritaria, ha inevitabilmente portato una parte non trascurabile dell’opinione cattolica al rigetto del metodo democratico-elettorale, e a sostenere l’Esercito Repubblicano Irlandese, l’IRA, anche quando questo ricorreva a metodi terroristici.

Ci sono situazioni di finta democrazia, il cui esempio più eclatante è quella che esistita per ben ottanta anni in una parte del Regno Unito – l’Irlanda del Nord – in cui i partiti sono in realtà espressioni di confessioni religiose: nell’Ulster, Cattolici e Protestanti), o addirittura tribali. I “clan” scozzesi sono infatti l’ultima sopravvivenza del tribalismo primitivo in Europa Occidentale.

In questi casi, il gruppo minoritario non ha nessuna speranza di accedere mai al potere. E al suo interno fatalmente si diffonde la tentazione di ricorrere alla violenza per sovvertire il sistema.

E val la pena di notare che, in casi come questi, non è la parte che vince e vincerà sempre ad aver interesse a porre termine al sistema della democrazia elettorale, ma quella che perde, e sa che perderà sempre. E’ da parte del gruppo che sarà sistematicamente minoritario, che si manifesta la decisione di trasferire la lotta politica dal campo del pacifico scontro democratico a quello dello scontro violento; la decisione di passare dal sistema in cui le teste vengono contate a quello in cui le teste vengono rotte.

In una situazione come quella della Siria, è perciò pressoché inevitabile che, per garantire un’equa rappresentazione di tutte le popolazione, si faccia ricorso al coinvolgimento di attori esterni al paese. Cioè che si tratti di un intervento armato, o di soluzioni analoghe a quella raggiunta in Irlanda del Nord negli anni di Blair, che di fatto ha trasformato l’Ulster in un duplice protettorato di Londra (degradata – rispetto all’Ulster – da centro della sovranità britannica al più modesto ruolo di capitale “estera” protettrice dei Protestanti) e di Dublino, promossa invece a potenza dotata di un “droit de regard” e di un potere di co-decisione sugli affari di una parte del territorio del Regno Unito.

Anche nel mosaico etnico settario siriano appare evidente che nessuna soluzione è possibile senza intervento esterno, tranne un interminabile spargimento di sangue. Ma l’obiettivo di un intervento esterno non può essere quello di introdurre la democrazia nel paese, di scacciare il dittatore e di cercare un governo attraverso libere elezioni.

Il massimo cui si può puntare è una soluzione di tipo nord-irlandese, con il coinvolgimento dei diversi paesi e soggetti politici presenti nel quadro regionale. Persino Israele, che sino ad oggi è stata prudentissimo – anche perché un suo sostegno agli insorti potrebbe anche danneggiarli presso la parte più fanatica del mondo islamico – sembra ormai prossimo ad accettare l’idea di un’azione esterna.

Ma un’azione esterna che dovrà avere obiettivi diversi e più chiari di quelli della spedizione americana in Iraq, ed anche dell’attuale missione degli osservatori dell’ONU.

E’ chiaro infatti – e lo ha notato esplicitamente lo stesso capo della missione dell’ONU in quel disgraziato paese – che nessuna delle parti cerca una soluzione pacifica. La tragedia della Siria è, sotto questo punto di vista, un vero scandalo. Non ci sono solo vittime casuali, civili presi in mezzo al fuoco delle fazioni nemiche. Ci sono invece massacri deliberati di vecchi e di bambini, solo perché appartenenti a gruppi e sette diverse da quelle di chi è riuscito ad impossessarsi di un fucile mitragliatore.

La via diplomatica per far cambiare atteggiamento al governo di Damasco appare bloccata, ma ciò non porta le Nazioni Unite alla scelta per la via militare, che nel caso della Libia fu invece la prima – o meglio l’unica – ad essere presa in considerazione. Il che pone l’Occidente in una posizione del tutto paradossale di fronte all’opinione pubblica mondiale, giustamente addolorata e indignata per la terribile perdita di vite umane.

Ogni osservatore obiettivo ha infatti pienamente ragione di chiedersi perché mai, quando gli Israeliani, che vedono con estremo allarme l’Iran progredire sulla via dell’arma atomica, minacciano il ricorso alla forza per bloccare – o almeno rallentare – i piani di Tehran, tutti gridino alle vittime innocenti, ai civili che verrebbero colpiti in un’azione militare preventiva.

Ma perché nessuno si indigna per le vittime innocenti dell’inerzia dell’ONU in Siria? Delle migliaia di vittime con cui il popolo siriano paga ogni giorno la scelta diplomatica del non far nulla?

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