Progettare per sopravvivere

Progettare per sopravvivere

I green buildings e l'ambiente mediterraneo

Il Mediterraneo è un mare chiuso e delimitato da montagne e, dal punto di vista dell’ambiente, rappresenta una delle regioni al mondo la cui unità è più evidente, dove gli equilibri sono estremamente delicati,  e le differenze rispetto alle zone temperate assai nette. Il riscaldamento ambientale colpisce questa regione in maniera diversa da come avviene nella maggior parte dei paesi europei. E diverse debbono perciò essere le politiche di protezione dalle trasformazioni globali, le strategie di mitigazioni dei loro effetti, e la ricerca di tecnologie e tipologie originali nel campo dell’edilizia ambientale.

 

Il lago mediterraneo

L’economia del Mediterraneo è sempre stata influenzata dalla sua morfologia montuosoa. I centri costieri di popolazione hanno sempre avuto rapporti difficili con il loro entroterra, per raggiungere il quale bisognava superare le catene delle Alpi marittime, dell’Atlante, o degli Appennini, del Libano e dell’Antilibano, per non parlare delle montagne selvagge della Grecia, dei Balcani, e della penisola anatolica. Ma, in cambio, questi centri costieri di popolazione avevano di fronte a sé un mare facilmente navigabile, praticamente sprovvisto di maree e dove le grandi tempeste sono molto rare. Lo sviluppo molto precoce della navigazione e del commercio marittimo si spiegano grazie a tali fattori, così come la creazione di una forte interdipendenza economica tra le due sponde e tra le diverse zone costiere.

Il Mediterraneo, insomma, appare per molti aspetti un lago, il cui clima è caratterizzato da una concentrazione di piogge autunnali con un picco secondario durante la primavera, da inverni miti e da estati lunghe e secche. La vegetazione è molto appropriata à questo ambiente, in particolare gli alberi di fico e l’ulivo, ma anche le specie vegetali introdotte negli ultimi secoli, quali il cactus, originario del Messico.

Anche gli uomini hanno organizzato la loro vita sulla base di queste caratteristiche, come ben dimostrato dall’architettura tradizionale, che presenta le stesse caratteristiche tanto sulla costa nord che sulla costa sud: un’architettura il cui scopo è sempre stato quello di proteggere gli uomini e gli animali dal calore del sole, e la vegetazione contro la perdita di umidità. Si spiegano così i modelli tradizionali di abitazioni chiuse sull’esterno, e con delle prese d’aria e di luce su un cortile interno, così come i “giardini” delimitati da mura che raggiungevano l’altezza degli alberi, in modo da impedire l’evaporazione. E’ un modello che si riconosce facilmente tanto nelle ville romane di Pompei quanto nei riyhad del NordAfrica.

L’antideserto

Queste caratteristiche dell’architettura sono state, durante secoli, il testimone più affidabile dell’unità culturale de Mediterraneo, e della forte somiglianza dei metodi di lavoro agricolo e dei modi di vita tout court.  L’eredità mediterranea tocca infatti tutti gli aspetti della vita economica, dall’ambiente al funzionamento delle società.

Per chi viene da Sud, dalla fascia del saheliana/sahariana che  – più a Sud – corre parallela a questo mare dalla Mauritania al Sudan, e che ha una superficie circa tre volte maggiore, la zona mediterranea appare come una sorta di paradiso in terra dove tutto è offerto e la vita è facile, dato che il suolo può – in taluni punti privilegiati, come la foce del Nilo, le Terre ’nnacquatorie, immediatamente a nord di Napoli  – essere coltivati senza irrigazione. Persino i geografi hanno talvolta qualificato la banda costiera del Mediterraneo come “l’anti-deserto”.

Ma per chi viene dalle regioni a clima oceanico, dalla zona atlantica – cioè da quella parte del mondo in cui negli ultimi tre secoli si è avuto il più rapido progresso economico, il mondo mediterraneo appare già come un ambente semi-arido, con un tappeto vegetale discontinuo e soprattutto  caratterizzato da una gravi fenomeni di erosione delle aree montuose e collinari. E soprattutto viene percepito come un ambiente naturale in cui il dominio dell’uomo sulla natura, e la valorizzazione di questa, non può essere che il risultato dello sforzo collettivo di un’intera società.

L’agricoltore indipendente delle zone temperate può infatti essere ragionevolmente sicuro del fatto che, insediandosi su una parcella di territorio, recintandola per proteggerla dagli animali selvatici, arandola e seminandola, egli potrà – alla scadenza del ciclo stagionale – ottenere un raccolto. Egli può insomma considerare di dipendere solo da Dio e dalla forza di lavoro del proprio braccio destro. Ma il coltivatore che ha dissodato, seminato e protetto un fazzoletto di terra nella zona mediterranea non si trova quasi mai nella stessa condizione di autonomia, non può sopravvivere in condizione di isolamento, perché la sua terra deve essere irrigata. E ciò lo rende obbligatoriamente parte di una collettività che sarà tanto più numerosa, e strutturata in maniera tanto più complessa, quanto più lontano è necessario spingersi per reperire acqua in quantitativi sufficienti, e quando più lunghi e tecnicamente sofisticati debbono essere i sistemi per trasportare l’acqua verso le zone coltivate, e distribuirla alle varie unità di produzione agricola.

Il contadino mediterraneo è quindi – per la stessa natura e per le necessità dell’ambiente agricolo in cui egli lavora – tanto più un animale sociale quanto più la sua attività è dipendente dai complessi sistemi di irrigazione gestititi da strutture complesse e da istituzioni forti, come erano i municipia  creati in tutta l’area all’epoca romana. Egli è perciò profondamente diverso dal farmer indipendente che vive una vita semi-selvaggia nell’isolamento tanto idealizzato dal mito americano. E’ questo il senso dell’espressione “civiltà contadina”, che non si applica agli agricoltori europei delle zone temperate, ma solo a quelli dell’area mediterranea.

L’opera dell’uomo è, nei paesi mediterranei, resa più complessa dalla forza e persino dalla violenza che la natura nasconde dietro l’estrema bellezza dei paesaggi. Estati secche e prolungate e piogge concentrate nelle stagioni intermedie, determinano infatti forti fenomeni di erosione, ed una instabilità idrogeologica generalizzata che ha spesso inferto duri colpi alla montagna. Con i materiali ad essa strappati, poi, i fiumi ed i torrenti stagionali dal regime spasmodico hanno costruito delle pianure alluvionali che hanno bloccato i golfi, e portato alla formazione di paludi dove per lungo tempo ha dominato la malaria.

La sola irrigazione, perciò, non basta. Dai tempi dell’antichità, gli uomini – tra loro associati in comunità – hanno quindi dovuto intervenire per proteggersi dalla violenza della natura, e tentare di modificare il dato fisico, con intervenuti ed opere che dimostrano nel corso dei secoli il ruolo centrale del legame sociale e dell’interesse collettivo nella società mediterranea. E il risultato di questo sforzo collettivo accumulato generazione dopo generazione, sono una visione della vita ed una mentalità che supera la concezione del benessere, dell’investimento e dell’utile come elementi puramente individuali.

Ad esempio, attraverso la creazione di terrazze come quelle ancora visibili in Toscana, e l’enorme opera di costruzione e di manutenzione dei muri di sostentamento – costruzioni di pietra a secco che richiedono il lavoro costante di più generazioni, e quindi una visione davvero a lungo termine – l’uomo del mediterraneo è riuscito a coltivare versanti spesso assai ripidi. Ciò, ha portato – con un picco raggiunto nel corso della prima metà del secolo che si è appena concluso – la popolazione agricola ad essere assai numerosa, e in generale concentrata piuttosto sulle prime pendenze che non sulle pianure litoranee, con un massimo di densità localizzato tra i 500 e i 900 metri di altitudine.

In epoca relativamente recente, con le grandi opere pubbliche tra le due guerre mondiali, le pianure costiere hanno anche esse potuto essere “bonificate”, ed il paesaggio rurale è allora divenuto pienamente opera dell’uomo e delle società.

Ciò ha però coinciso con la fase più violenta delle influenze esterne sulla società e sul paesaggio mediterranei. Non solo influenze come l’industrializzazione e la “terziarizzazione” turistica, ma anche le influenze tecniche nell’agricoltura. In tale campo, l’influenza economica e tecnologica – e dunque culturale – nel nord si è concretizzata nella diffusione di nuove e più massicce tecniche d’irrigazione, soprattutto a causa del fatto che , sono state massicciamente introdotte alcune piante straniere all’ambiente, quale il mais. E questa più pesante irrigazione, con fabbisogni d’acqua assai più importanti ha implicato l’inquadramento del contadino in una ancora più forte organizzazione collettiva. Basta pensare alle zone bonificate della Provincia di Latina, per rendersi conto di come, analogamente a quanto accadeva all’epoca romana in Africa del nord e in Spagna, sono la dipendenza da uno sforzo collettivo della società, ed un orientato verso il lungo termine, a caratterizzare l’identità degli individui e delle società nella fascia costiera della regione mediterranea.

L’invasione nordista

Una tipica attività delle zone mediterranee consisteva nella produzione di sale marino. Così tipica che essa poteva in definitiva essere usata come parametro per definire l’ambiente mediterraneo. La produzione di sale d’origine marina è infatti possibile sono in zone abbastanza vicine alla costa da avere facile accesso alla materia prima, e i cui il bilancio tra evaporazione nei periodi soleggiati e aggiunta di acqua nelle salina al momento delle piogge era nettamente favorevole alla prima.

La rivoluzione industriale, che è evidentemente andata molto al là di questa semplice e antichissima attività di trasformazione,  non ha investito direttamente il Mediterraneo, ma l’ha comunque trasformato. La morfologia del territorio non si prestava in effetti all’installazione di grandi complessi produttivi, tranne che in qualche luogo preciso. I centri dove l’economia “moderna” si è sviluppata coincidono dunque con i rari punti dove le catene montuose del rilievo costiero sono interrotte, e dove è più facile l’accesso all’entroterra. Questi erano d’altronde i luoghi nei quali fin dall’antichità si erano sviluppati i centri commerciali attraverso i quali si scambiavano i prodotti mediterranei contro quelli dell’Europa continentale, dell’Asia e dell’Africa: Marsiglia, che tramite la valle del Rodano ha accesso alla grande pianura nord-europea; il Cairo, che grazie al Nilo può facilmente comunicare con l’Africa interna; e gli Stretti del Dardanelli, tramite i quali si ha accesso marittimo e poi terrestre all’Asia nel nord. Analogo, ma più ristretto, il fenomeno di sviluppo nella zona di Barcellona (che ha dietro di se la valle dell’Ebro) e nel nord dell’Italia, grazie alla valle del Po.

Pur così limitato geograficamente, lo sviluppo industriale ed urbano nel Mediterraneo ha inevitabilmente influito sul paesaggio e sull’architettura. A differenza dell’habitat e dell’agricoltura tradizionale, che seguivano il principio d’inserirsi il meglio possibile nell’ambiente, la civiltà industriale partiva invece dall’idea di sottomettere e di trasformare l’ambiente, e di adattarlo ai nuovi stili di vita delle società umane.

Si è ovviamente trattato di trasformazioni che si sono sovrapposte sulle realtà preesistenti, e il cui impatto è stato più forte nelle zone del Mediterraneo che appartenevano – e che appartengono – politicamente a Stati extra-mediterranei, e dove questi ultimi hanno imposto il loro modello culturale, ivi comprese le tradizioni abitative ed architettoniche. Così, gli immobili mansardati di Marsiglia mostrano l’influenza di un’architettura concepita in un ambiente, come quello di Parigi, dove le piogge sono molto più abbondanti.

A causa della colonizzazione politica della costa sud ad opera delle potenze europee, si avrà dunque, alla fine del XIX secolo, in ogni città del Mediterraneo, un “quartiere europeo”, dalle caratteristiche non solo differenti, ma opposte rispetto al resto della città, dalle caratteristiche cioè ispirate a quelli dai centri delle grandi città industriali. E il valore simbolico che vi si attribuiva era assai grande, tanto che a Napoli, città che per circostanze storiche particolari era scampata a tali trasformazioni, e alla quale si rimproverava di essere la sola grande città del Mediterraneo a non avere un quartiere europeo, un progetto finanziato dallo stato italiano pianificò, alla fine del XIX secolo, un programma di “risanamento” che consisteva nella distruzione della maggior parte dei 150 “fondaci” – case tradizionali a più piani, che affacciavano su un cortile interno comune – che occupavano parte del centro della città.

Un nuovo rapporto con il sole

Ancora più radicale è stato il cambiamento forzato delle forme tradizionali dell’inserimento umano nel paesaggio nella fase successiva, quando il Mediterraneo è stato investito dalla terziarizzazione dell’economia. Se al bordo del Mediterraneo non ci sono mai state molte attività industriali, c’è stato invece un forte sviluppo turistico. Soprattutto a partire dagli anni ’30, con la nascita del turismo di massa, una popolazione stagionale molto numerosa ha cominciato ad invadere le regioni mediterranee, da entrambe i lati del mare, e con un impatto estremamente violento.

I veri e propri “eserciti della villeggiatura” con cui negli ultimi settant’anni l’Europa ha invaso le regioni mediterranee hanno trasformato completamente il rapporto tra la il modo di vita mediterraneo ed il suo ambiente. Mentre l’architettura mediterranea tendeva a proteggere gli esseri viventi dall’eccessiva insolazione,  e a preservare l’umidità nella terra e nei giardini, i vacanzieri non cercano di proteggersi dal sole, al contrario. Vengono per assorbirne il più possibile, come una riserva che li aiuti a meglio vivere il resto dell’anno nell’ambiente del nord.

L’architettura mediterranea ne è stata completamente sconvolta. Invece di tenere il sole fuori dagli ambienti costruiti, ora lo scopo degli edifici era quello di farne entrare il più possibile. Il modello di città radiosa lanciato da  Le Corbousier viene così declinato in migliaia di modo differenti, con una moltiplicazione di balconi fioriti e di aperture vetrate orientate verso sud. E l’elemento culturale e “balneare” viene reso ancora più potente dalle nuove tecnologie edilizie, quella del cemento armato, in primo luogo, ma anche quelle del vetro, che negli stessi anni ’30 diventa materiale da costruzione, grazie anche a miglioramenti molto importanti della sua qualità. L’idea dell’immobile “solare”, il cui prototipo tutto di vetro era stato costruito a Berlino, viene applicata a tutto spiano sulla costa del Mediterraneo. E anche nel XXI secolo continua ad esserlo, soprattutto in Spagna e in Turchia, i paesi ultimi arrivati alla strategia di “europeizzazione tramite il turismo”, e quelli le cui coste hanno subito i peggiori sventramenti.

I limiti della tecnologia

La ricerca sistematica del sole ha implicato, in tempi più recenti, ulteriori trasformazioni tecnologiche, quali l’introduzione dell’aria condizionata in ogni attività di supporto al turismo e nelle parti dell’architettura turistica non specificatamente dedicate all’abbronzatura.

Il bilancio energetico degli edifici sorti a partire dagli anni 30, e soprattutto dopo la guerra, sulle coste del Mediterraneo è dunque radicalmente differente da quello dell’architettura tradizionale. L’antica architettura garantiva infatti un confort più equilibrato di quello che può essere fornito dall’architettura turistica attuale, e lo forniva ad un costo energetico prossimo allo zero. Oggi il costo è diventato enorme, ed il contributo delle zone turistiche alle attività che aggiungono all’ambiente gas a effetto serra è molto significativo.

Il riscaldamento ambientale in atto crea logicamente un circolo vizioso. Più l’ambiente si degrada, più è necessario consumare energia per proteggersene, e dunque, più si contribuisce alle emissioni di CO2. E questo dilemma generale – che è uno dei peggiori segnali dell’incapacità dello sviluppo contemporaneo ad auto-gestirsi – fa pesare una prospettiva particolarmente allarmante sul Mediterraneo nell’era dello sviluppo terziario.

In effetti, è evidente il profilarsi di una crisi. Soprattutto perchè coloro – soprattutto pensionati – che hanno comprato case in Spagna, a Cipro o in Tunisia per andarci a passare i loro ultimi anni di vita, cominceranno a cambiare parere, se le estati torride si ripeteranno con la violenza che abbiamo conosciuto nel 2003. Per impedirne la fuga – che provocherebbe un crollo del modello di sviluppo fondato sul turismo, e sul settore terziario in generale – bisognerebbe ripensare in maniera radicale le tecnologie edili, e ritornare a forme e a materiali più simili a quelli dell’architettura tradizionale.

Si tratta di una sfida che si pone a tutti e società mediterranee, e in maniera decisamente drammatica ai paesi, come la Spagna, che hanno costruito enormemente in base ad un modello che si rivela oggi inadeguato. Ma è una sfida che offre un’occasione ai paesi che ancora hanno ampie risorse turistiche da valorizzare, quali il Marocco, l’Algeria, la Libia e la Siria, di farlo secondo modelli che corrispondono allo stesso tempo alla tradizione culturale mediterranea e alle necessità dei prossimi decenni.

Il Mediterraneo come alternativa

La realtà del riscaldamento planetario investe evidentemente non solo il Mediterraneo, ma tutti i paesi del mondo, e rimette in gioco non solo la cultura mediterranea ma tutte le culture sono quindi chiamate a riformare le loro tradizioni architettoniche ed il loro rapporto con l’ambiente, per imporre al sistema mondiale una rapida retromarcia dalla strada su cui è così pericolosamente avviato. E tutti dovranno rielaborare formule e tecniche affinché questa rapida, inevitabile retromarcia avvenga sotto il controllo dell’uomo. Altrimenti essa accadrà sotto il controllo delle forze della natura, e cioè in maniera catastrofica.

Per le società mediterranee si pone dunque la necessità di far fronte a tutti i problemi ambientali che caratterizzano oggi un pianeta in crisi. E contemporaneamente si pone quello di re-inventare le forme tradizionali dell’abitato, andando alla ricerca di soluzioni tecniche che implichino una drastica riduzione dei consumi energetici.

Perseguendo contemporaneamente questi tre obiettivi, sarà possibile non solo moderare gli effetti della degradazione del clima in tutta la regione cui appartiene il nostro paese, ma forse anche identificare un nuovo rapporto tra crescita economica e protezione delle risorse naturali. E si tratterà verosimilmente di conoscenze,  che potranno essere utili in tutti gli ambienti del globo. Al di là della riscoperta dell’architettura tipica del bacino mediterraneo, si potranno concepire politiche che coinvolgano i paesi della costa sud come quelli della costa nord, e che possano contribuire agli interessi comuni di quell’insieme più vasto che è formato da tutti i popoli del mondo. L’architettura mediterranea che abbiamo visto essere testimone dell’unità della regione, diventa così un ambito di ricerca e di innovazione globale.

La questione “che fare?”, che si pone quale seguito logico di questa breve analisi, e che dovrà essere affrontata al Vertice di Copenaghen, il prossimo dicembre 2009, è dunque una questione di scottante attualità, dato che dal 2003 si sono visti i primi forti segni di riscaldamento della terra. Ma è anche una questione che viene quanto meno posta molto in ritardo rispetto ai gridi di allarme degli scienziati e degli esperti (soprattutto dall’International Panel on Climate Change dell’ONU), e alle prove indiscutibili del cambiamento climatico in atto.

La precedente Conferenza sul clima riunitasi a Parigi nel 2007 ha avuto degli aspetti francamente paradossali, con gli scienziati – i quali dovrebbero avere una visione “tecnica” e “distaccata” dei problemi dei quali si occupano – che non cessavano di dichiarare il le loro preoccupazioni circa l’impatto del cambiamento climatico sulla società, e con i governi (che dovrebbero avere a cuore l’interesse pubblico) che si sforzavano di minimizzare – senza avere né le competenze né il titolo – i risultati allarmanti degli scienziati. A livello di alcuni paesi europei, però, gli ambienti governativi ed internazionali hanno cominciato ad interrogarsi sulle politiche necessarie per fare fronte ai nuovi vincoli che ne derivano.

Si è in primo luogo tentato di quantificare il fenomeno calcolando alcune cifre di base. Ed è così che si è presa conoscenza del fatto che, contrariamente a ciò che crede la maggior parte dell’opinione pubblica internazionale, i grandi responsabili dell’effetto serra non sono unicamente i trasporti automobilistici e su strada.

Al contrario, circa un terzo del consumo di energia è dovuto alle attività residenziali (costruzione e manutenzione delle abitazioni, riscaldamento e climatizzazione). E, inoltre, questo consumo ha luogo in condizioni tecniche talmente pessime che tale settore finisce per essere all’origine di oltre il 40% delle emissioni di gas ad effetto serra . Ciò è tanto più irrazionale dato che gli utilizzi domestici dell’energia sono quelli che hanno più facilmente accesso alle fonti diverse dai combustibili fossili, i maggiori  responsabili dell’effetto serra.

L’energia ricavata dalle fonti dette “rinnovabili”, oltre che quelle prodotte con l’atomo ( il quale non rigetta gas serra nell’atmosfera, ma che non è affatto rinnovabile, e che pone un problema drammatico relativo ai detriti radioattivi che si accumulano, e i quali vengono lasciati in eredità alle generazioni future), viene in effetti distribuita sotto forma di elettricità, e ciò la rende facilmente utilizzabile nell’edilizia, ma male di adatta ai trasporti su strada ed aeronautici.

Introdurre, o piuttosto re-introdurre, una forte dose di razionalità ambientale nell’edilizia e nella gestione del patrimonio immobiliare è dunque essenziale, soprattutto nel campo degli immobili ad uso turistico, dominio che – nei paesi mediterranei – è stato il più drammaticamente investito dal fattore “ricerca del sole”.

Per un paese importatore netto di energia, i benefici lordi del turismo rischiano di essere meno evidenti se si tiene conto dei costi in energia che tale attività implica, relativamente agli immobili destinati al turismo, come nelle attività legate ai voli low cost, che finiscono per essere largamente sovvenzionati.

Una densità senza precedenti

Il nuovo dato empirico con il quale bisogna oggi fare i conti nel Mediterraneo è l’evoluzione demografica. I dati parlano chiaro. Questa evoluzione implica da un lato un incremento decisamente impressionante della pressione della popolazione su una stretta banda costiera, in Maghreb, Egitto  Medioriente e Turchia – e per quanto riguarda il Mediterraneo occidentale – soprattutto in Algeria; e dall’altro l’immigrazione di popolazioni di origine nord africana in Spagna, in Francia e in Italia, e la nascita difficilmente reversibile di significative minoranze islamiche nei paesi della sponda nord, soprattutto in Francia e Spagna. E’ in questo nuovo contesto, il quale – per la densità che caratterizza le zone più favorevoli all’insediamento imano – rende totalmente superata la possibilità dell’habitat disperso, che l’avvenire delle regioni mediterranee deve essere preso in esame.

La ricerca dei modi di recupero delle forme e delle funzioni tradizionali dell’habitat, non si riferirà dunque solo alla casa familiare, ma anche sulle residenze raggruppate, date che esse si ricollegano ad un approccio generale di lotta contro lo spreco energetico, in tutti i settori. Ed è invece proprio sulla casa singola che si stano esercitando i tentativi di progettazione in questo campo.

La principale ragione di tale scelta è che il problema del cambiamento climatico si pone a tutti i livelli, e non riguarda unicamente  rapporti tra edifici e sole. Il problema si pone in particolare al livello dei trasporti. Orbene, lo sviluppo urbano e suburbano fondato sulla casa familiare provoca la formazione di zone residenziali a debole densità e scoraggia dunque i trasporti in comune. Se gli USA consumano un quarto delle risorse mondiali di energia (rappresentando il 5%  della popolazione mondiale) è anche a cause del fatto che, per 300 milioni di Americani, vi sono oltre 80 milioni di edifici residenziali, vale a dire che in media un edificio ospita meno di 4 persone, e che – a parte l’irrazionalità intrinseca di una tale modello di habitat – di conseguenza, per andare al lavoro, gli Americani percorrono facilmente 150 chilometri in macchina al giorno.

Nulla di tutto ciò – né l’insediamento a bassa intensità, né l’enorme pendolarismo automobilistico – è concepibile nelle società mediterranee. L’isolamento selvaggio e asociale dell’individuo nelle società anglo-sassoni – che nel XX secolo si sono proposte come modello universale – non è accettabile attorno al “lago mediterraneo”, le cui tendenze future dell’economia e i cui vincoli della crisi dell’ambiente e delle risorse naturali spingono nella stessa direzione nella quale è già stata paralizzata la geografia e l’eredità culturale. Si mipone perciò la ricerca di modelli abitativi  autonomi, propri dell’ambiente mediterraneo, e di modelli che uniscano la difesa contro l’eccessiva insolazione, il basso costo di esercizio energetico delle abitazioni, ed una razionale mobilità della popolazione.

Green buildings per il Mediterraneo

L’esperienza del Mediterraneo finisce per diventare marginale con la rivoluzione industriale e dallo spostamento del centro dell’Occidente verso le pianure dell’Europa del nord a clima oceanico. Ciò, e le sue conseguenze, è decisamente visibile nella struttura stessa delle città. Guardando ad una cartografia di Parigi è facile constatare come le strade – già prima dell’epoca di Haussmann, e persino prima del piano regolatore di André Le Nôtre – sono disegnate in maniera tale da dare alla maggior parte possibile delle abitazioni delle finestre orientate a sud-ovest, che permette al sole di entrare in profondità, ma anche di captare il massimo di luce al tramonto del sole. Quand’esso è carico di raggi infrarossi.

E’ giustamente il contrario della logica dei paesi del Mediterraneo e delle regioni aride, nelle quali si cerca sempre di avere le finestre orientate a nord o a sud, vale a dire esposte verso il sole quando questo è alto all’orizzonte. La logica dei paesi del nord è evidentemente quella di sfruttare al massimo il calore natuale del sole per riscaldare l’interno delle residenze e tranne re al massimo il calore captato, evitando che esso si disperda verso l’esterno. E’ la stessa logica che troviamo oggi negli schemi dei green buildings, che vengono da più parti proposti, ed in qualche caso anche realizzati.

Ci sono due approcci tecnologici a tale riguardo. Il solar passive cerca di rendere l’edificio completamente autosufficiente sfruttando le superfici esposte al sole non solo per fare aumentare la temperatura all’interno di essi, ma anche per garantire la circolazione dell’aria e i condizionamenti generali. Il solar active consiste in soluzioni che richiedono ad ogni modo che venga aggiunta dell’elettricità o dell’energia derivanti da altre fonti, questo per garantire in conforto all’interno di esse. Un edificio è considerato «passivo» quando il suo fabbisogno termico annuo non supera i 15 chilowattora per ogni metro quadro di superficie, e la potenza richiesta per il riscaldamento non supera i 10 Watt per ogni metro quadro.

L’Italia è lontanissima da questi standards: una ricerca condotta dall’ENEA ha infatti potuto constatare che il consumo energetico di un’abitazione italiana media ha un valore almeno di tre
volte superiore.

In entrambi gli approcci tuttavia, è evidente la finalità di ridurre il consumo di energia elettrica e delle altre forme di riscaldamento captando dall’esterno, e mantenendo il più possibile all’interno del fabbricato l’energia già presente, cioè quella fornita dal sole, e l’energia – assai notevole – prodotta dagli elettrodomestici comunque presenti in una abitazione, e dalle persone stesse: il cosiddetto “calore animale”.

Inutile dire che è questa l’ispirazione culturale della burocrazia di Bruxelles. Fondandosi sull’esperienza del primi edifici passivi costruiti tra il 1998 e il 2001 in Europa centrale nell’ambito del progetto europeo CEPHEUS (Cost Efficent Passive Houses as European Standard), una importante direttiva europea – la n. 91 del 2002, applicabile in Italia dalla fine del 2005  – è venuta infatti a disciplinare il rendimento energetico in edilizia.  Ed alcune amministrazioni locali, in particolare in Trentino-Alto Adige, hanno perciò già provveduto ad imporre appositi criteri edilizi, non solo per i fabbricati da costruire, ma anche – da applicarsi gradualmente – per il patrimonio edilizio esistente.

La logica che presiede a tali criteri è assai semplice. Si tratta in primo luogo di mantenere un rapporto assai basso tra superficie esterna e volume totale dell’edificio, privilegiando quindi ila progettazione di edifici di forma assai compatta, l’uso di materiali fortemente isolanti e di finestre speciali a forte “tenuta d’aria” (cioè che non consentano “spifferi”), e soprattutto dotati di impianti di “ventilazione meccanica controllata con recupero di calore almeno all’80 per cento”.

Alcune di queste caratteristiche – in particole quella quella che prevede “finestre” non utilizzabili per il ricambio dell’aria, cioè finestre che non si possono aprire – e che sono comunemente peviste nella progettazione dei passive buildings, appaino infatti francamente inaccettabili nel quadro della tradizione architettonica e della più generale cultura mediterranea. E di fatto questi criteri derivano dal fatto che le ricerche sul “green building” sono condotte principalmente negli Stati Uniti e in Europa del nord, e fortemente influenzate dai bisogni di questi paesi, che consistono sempre ad assorbire il più possibile dei raggi solari esterni, e non come nel Mediterraneo per proteggersene.

Progetti portati avanti da una rete di centri di riflessione e progettazione attiva in Germania, Austria, e paesi scandinavi – e la cui propaggine più meridionale è, significativamente Bolzano – prevedono infatti che le unità abitative siano completamente chiuse verso l’esterno, e in cui il ricambio dell’aria avverrebbe tramite un complesso sistema di filtraggio e captazione dell’aria esterna, successivamente fatta passare in uno scambiatore di calore cge sottragga calore dall’aria viziata contemporaneamente espulsa dal fabbricato e lo usi per riscaldare l’aria proveniente dall’ambiente naturale. Gli inconvenienti di una tale concezione, già evidenti nei progetti e nelle realizzazioni finora avviati, relativi principalmente ad abitazioni mono familiari e a piccoli fabbricati, si moltiplicano nei progetti di più grandi dimensioni, che sono poi quelli dove per i quali esiste un vero fabbisogno.

Si tratta, per di più, di schemi tecnici che allo stato appaiono culturalmente inaccettabili in ambiente mediterraneo, o che comunque richiederebbero un radicale cambiamento di mentalità. Non a caso, le loro applicazioni concrete si concentrano attorno al Lago di Costanza, su cui si affacciano Germania Austria e Svizzera, e che sembra – in questa visione nord-eiropea di adeguamento ai vincoli climatico-energetici e alla mitigazione degli effetti del riscaldamento ambientale  – essere destinato a diventare una specie di  “piccolo Mediterraneo” interno alla landmass europea.

Il Mediterraneo in un pianeta in crisi

Una ricerca autonoma condotta nell’ambiente mediterraneo è dunque indispensabile.

E tale ricerca va inserita in una più vasta riflession sulla collocazione delle società mediterranee e delle loro economie nel quadro della nuova divisione internazionale delle attività determinata dal disastro ambientale. Le domande che ci si può porre sull’impatto del cambiamento climatico su questa parte del mondo sono infatti assai più vaste di ciò che è stato trattato fino ad adesso, e riguardano il destino che potrebbe essere il proprio nel quadro della ri-organizzazione dell’economia mondiale sulla base dei nuovi determinati dal riscaldamento ambientale, e dalla necessità di combatterlo e di mitigarne i suoi effetti.

E’ chiaro che i paesi avanzati non sono pronti a rinunciare né ai loro privilegi, e neanche alle loro abitudini di spreco. Per questo continueranno durante una prima fase a sfruttare al massimo i combustibili fossili, tentando di “sequestrare” il biossido di carbonio (tramite la dissoluzione, dagli effetti totalmente sconosciuti, nelle acque del mare) e successivamente a sviluppare combustibili di origine vegetale, trasformando l’agricoltura dei paesi temperati verso gli oleaginosi, e quella dei paesi del sud del mondo verso l’alcool. Ciò provocherà un peso immenso sul sistema agricolo, con una concorrenza oggi inimmaginabile tra prodotti alimentari e carburante d’origine vegetale. Verrà così tracciata una nuova geografia economica su scala planetaria, il cui prezzo sarà pagato dalle popolazioni più povere, e le quali sono già sotto-nutrite.

Il ruolo che la regione mediterranea avrà in questa nuova divisione del mondo non è chiaro. Rischia di diventare una zona di frontiera, o di essere di nuovo tagliata in due, oppure di conoscere una forte marginalizzazione. Ed è questa è una prospettiva che non può che suscitare seri timori.

2 Luglio 2009

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