La Fiat globale

La Fiat globale

 

Incredula e furiosa. Sono questi gli unici aggettivi possibili per dare un’idea dello stato d’animo con cui l’Europa ha seguito i rapidi e serrati negoziati che hanno portato il Presidente degli Stati Uniti Uniti ad annunciare l’accordo tra Chrysler e Fiat come un “nuovo inizio” nella storia del principale comparto manifatturiero dell’economia dell’Occidente. Barack Obama sembrava felice: « Si tratta di una partnership che darà a Chrysler non solo una possibilità di salvezza, ma anche l’occasione per prosperare in un settore automobilistico ormai mondializzato.

L’opinione pubblicata e Marchionne l’un-Italian           

Ma, se da un punto di vista americano, l’accordo con la Fiat “dà alla Chrysler la possibilità non solo di sopravvivere ma di prosperare”, dal punto di vista italiano ed europeo va soprattutto messo in luce come l’elegante operazione condotta da Sergio Marchionne abbia posto la Fiat al centro della grande redistribuzione delle carte dell’industria automobilistica mondiale. Ma anche,en passant, per rilevare il disappunto mostrato dai nostri partners/concorrenti europei di fronte alla totale naturalezza con cui l’uomo più potente del mondo ha imposto, un mese fa, allaChrysler di smetterla di trastullarsi con sogni di resurrezioni impossibili, e di affidarsi agli unici che potevano salvarla: gli Italiani della Fiat.

Compatti come una legione romana nella sistematica denigrazione dell’Italia, i media, l’opinione “pubblicata” dell’Europa, si sono affannati in ogni modo a sottolineare difficoltà vere o presunte che impedirebbero all’azienda italiana di svolgere un ruolo su scala globale.

La più frequente di queste malevole e invidiose considerazioni tende a insinuare l’idea che, se è innegabile che Sergio Marchionne ha risanato finanziariamente l’azienda torinese, il cui nome – afferma sprezzante The Economist (23 Aprile) – “era diventata sinonimo di fallimento sotto ogni punto di vita”, egli sarebbe riuscito in questa spettacolare ripresa “scroccando 2 miliardi di dollari alla General Motors”, insomma con una specie di truffa. E poi, se Marchionne è un manager di straordinarie capacità è perché, pur essendo nato in Italia, é cresciuto in Canada, e “invece di essere ben vestito ed usare eleganti giri di frase, preferisce pullover privi di forma e parla con brutale franchezza carica di parole volgari”, Insomma, è bravo perché, per fortuna sua e dellaFiat, sarebbe “un-italian”.

Ciò è naturalmente quel che ripete instancabilmente quella “grande stampa internazionale”, che pratica un “giornalismo” asservito ad interessi assai precisi – di cui un giorno o l’altro bisognerà pure parlare in dettaglio. E questi sono i giudizi che l’opinione pubblicata italiana – La Repubblica, Il Corriere, etc. – cerca di far accettare all’opinione pubblica, spacciandoli come verità incontrovertibili, quasi fossero l’oracolo di Delfi.

Così, nell’evidente intento di ridimensionare il significato dell’opera di risanamento compiuta da Marchionne alla Fiat, Le Monde scrive ad esempio (24 Aprile) che “egli non aveva sino a ieri potuto farla crescere alla taglia necessaria” per far fronte alla sfida del nuovo secolo, e che “il gruppo italiano resta quel che è sempre stato, un produttore di auto poco costose e dai bassi consumi”.

Il futuro realisticamente prevedibile

Solo che definirla “un produttore di auto poco costose e dai bassi consumi” non significa niente altro se non che la Fiat è la detentrice delle tecnologie essenziali di quella che sarà l’automobile in tutto il futuro per i quale è oggi possibile fare previsioni realistiche. Nei prossimi vent’anni, infatti, si lavorerà certo all’automobile del futuro, e in generale alle tecnologie  di trasporto del dopo petrolio, e si parlerà molto dell’auto elettrica o ad idrogeno. Ma difficilmente sarà possibile mettere sul mercato a costi competitivi veicoli che  non vadano, in un modo o nell’altro, ad accrescere la bolletta petrolifera, che Obama è consapevole di dover invece drasticamente ridurre.

Nel futuro prevedibile, non saranno infatti ancora messe a punto auto a batteria che non dipendano, per  l’elettricità, da centrali a olio combustibile, oppure auto ad idrogeno, ma che possano essere rifornite con un carburante che non sia estratto dal metano, oppure ottenuto dall’acqua attraverso l’elettrolisi, in processo ad altissimo consumo di energia. In altri termini, rinviate ad un futuro ancora non determinato le soluzioni avveniristiche, il destino dell’automobile resterà legato a motori e a carburanti dello stesso tipo di quelli che conosciamo ora,  solo che si dovrà puntare su veicoli piccoli e su motori a basso consumo. Si dovrà puntare cioè su un tipo di veicoli nella cui costruzione la Fiat eccelle.

Di tutto ciò sono ben a conoscenza gli ambienti industriali, tanto che pochi giorni fa Jean Marc Daniel, direttore di Sociétal, la rivista della Confindustria francese, non ha esitato a dichiarare pubblicamente che la Fiat è l’azienda automobilistica che gode, sul mercato mondiale dell’automobile della migliore posizione tecnologica, e che se se vogliono uscire dalla crisi, gli altri paesi industrializzati farebbero bene a imitare l’ Italian touch. Ma ciò non basta ad impedire al quotidiano filo-industriale  Figaro (1 Maggio) di accusare la Fiat di avere “il passo del conquistatore”. (Da quale pulpito viene la predica! ci sarebbe da esclamare). E di accusare Marchionne di essere una subdolo bugiardo, quando dichiara alla Stampa che occorrerà « saper restare umili». La Fiat infatti è “un orco … che non pensa certo di fermarsi su questa strada così proficua » e che ha gia incominciato a “guardare già altrove » : alla Opel soprattutto.

Nonostante il “fervore nazionalistico” che l’accordo con la Chrysler avrebbe suscitato in Italia, la Fiat, puramente e semplicemente, non ha –  secondo il quotidiano francese – le spalle abbastanza solide per poter crescere così velocemente. In definitiva, si tratta – come scrisse in passato il sempre ineffabile Economist. di un’azienda “i cui profitti sono tanto magri quando sottile è la lamiera con cui sono fatte le sue automobiline.”

Naturalmente, questo idrofobo abbaiare di “giornalisti” che cercano solo di soddisfare i peggiori istinti xenofobi dei loro paesi, non può far dimenticare che la Fiat, per essere uno dei pochi giganti dell’automobile che sopravviveranno alla crisi, deve crescere di dimensione circa due volte e mezzo, passando da una produzione di 2,2 milioni di veicoli prodotti all’anno a 5,5 o addirittura 6 milioni.  E’ inevitabile perciò che Torino guardi ad altre occasioni, come la disastrata Opel, che poche settimane fa la GM, che ne è proprietaria, si dichiarò pubblicamente disposta a regalare a chi se la volesse prendere. E per la cui difesa si sono mobilitati – per ragioni elettorali – i partner/rivali della Merkel e persino il Tedesco di turno nella Commissione europea: che è stato però assai lesto a fare macchina indietro di fronte alle proteste per l’abuso che egli aveva commesso del suo ruolo istituzionale.

Il passo del conquistatore

Nelle reazioni europee, sia tedesche che francesi, al successo della Fiat gioca naturalmente anche il fatto che un’altra società europea, la Daimler, ha lasciato sul campo, nel tentativo di collaborazione con la Chrysler, parecchi miliardi di dollari. A questo proposito, Les Echos non perde l’occasione per confermare che i Francesi non hanno ancora accettato l’unificazione della Germania e dell’Italia. Infatti, in un commento intitolato “Matrimonio all’Italiana” (24 Aprile) il quotidiano finanziario francese finge di chiedersi se “gli Italiani del Nord saranno più bravi dei tedeschi del Sud a conquistare il cuore e il portafoglio dei consumatori americani ». Lo Spiegel, invece, tenta di spiegare il “disastroso merger” tra Daimler e Chrysler, contrapponendo il carattere “europeo” degli executives tedeschi “che non sono mai entrati in sintonia con i loro partners americani” con la solita storia del carattere un-Italian di Sergio Marchionne. Tanto cominciare, scrive il settimanale tedesco, egli aveva 14 anni quando la sua famiglia è emigrata in Canadà, ed è tornato in Europa quando ne aveva già 41. E poi, sarebbe mezzo tedesco perchè ha lavorato in Svizzera “come dirigente in una fabbrica di scatole”.

Insomma, neanche ai media germanici l’audace operazione realizzata dalla Fiat va giù tanto facilmente. E ancora meno, probabilmente, risulta digeribile che il Presidente Obama abbia senza esitare riconosciuto che, per l’automobile di domani, bisognava far ricorso alla tecnologia italiana, e alla sua capacità di collocarsi sul crinale lungo il quale si profila il futuro a medio termine di questo fondamentale settore industriale.

L’aspetto su cui la prudenza tedesca è comprensibile è quello che i sindacati pongono al centro del negoziato, e cioè l’impatto occupazionale che la nascita la “Fiat globale” avrà sulla sua base europea. In Italia, questo importante aspetto è stato sollevato solo dall’ex giudice Di Pietro, ormai trasformatosi in politico populista ed eternamente protestatario. Non c’é dubbio infatti che, vista dalla Germania, la “grande strategia” di Marchionne possa apparire troppo “all’americana”, come l’opera di uno di quei raiders d’assalto che la finanziarizzazione del capitalismo d’oltreoceano ha fatto moltiplicare; così come non c’é dubbio che, vista dall’America, l’audace operazione condotta della Fiat appaia come l’intervento di un “angelo tecnologico” che interviene a salvare il salvabile di un’industria ormai totalmente decotta.

In realtà, non è né l’una cosa né l’altra. Sergio Marchionne, viene celebrato dall’élite americana del danaro e del potere come un “tagliatore di teste”, per avere in pochissimi anni completamente rinnovato la struttura di comando della Fiat. Ma in realtà, se egli può proporsi come l’uomo che farà sposare l’industria automobilistica americana col XXI secolo, è perché ha alle spalle il patrimonio tecnologico detenuto non solo dalla società di Torino, ma anche da tutto un sistema capitalistico denso di imprese piccole e medie, che potrebbero trovare nello sforzo per modernizzare la Chrysler una eccellente occasione di lavoro e di crescita. E ciò vale anche per il sistema industriale tedesco, dove la ristrutturazione della Opel, anche se dovesse portare a quelle riduzioni dell’occupazione diretta che il sindacato IGmetall sembra temere,  andrà indubbiamente a vantaggio delle molte imprese di media dimensione e tecnologicamente assai sofisticate, anche se meno flessibili di quelle italiane, di cui è ricco il tessuto produttivo della Germania.

 

La gara per il favorito

Non occorre dilungarsi oltre sulle reazioni con cui è stato accolto l’evidente – ed ormai dichiarato – interesse della Fiat per la Opel. Ma è facile osservare che, se Obama e la task force governativa cui egli ha affidato il compito di salvare l’industria automobilistica degli Stati Uniti, hanno fatto della cessione gratuita alla Fiat di una sostanziale quota della Chrysler un esplicito punto irrinunciabile, ciò non è certo dovuto alla sola personalità di Sergio Marchionne, al suo presunto carattere un-Italian e alla sua americanità, ma – al contrario – proprio all’Italian touch di cui sono depositari i progettisti e i tecnici di questa azienda, la cui nuova 500 è stata definita “l’i-Poddell’automobile”. E bisogna forse aggiungere che i Soloni del Financial Times non avevano capito nulla quando (10 Novembre 2008) avevano pontificato che, nella “seconda corsa” alla Casa Bianca, l’Italia era completamente tagliata fuori.

Ma che cosa è la “seconda corsa” alla Casa Bianca? E’ – secondo il tanto rispettato quotidiano londinese la gara che si era scatenata tra i leaders europei “per essere il primo a rendere omaggio al neo-eletto presidente dell’America to be first to pay homage to America’s”, in uno “svegognato atteggiamento di ossequio francamente più che patetico”, nell’attesa che “questa rock star della politica globale scelga il suo alleato favorito”. Ebbene, “tra I tradizionali alleati dell’America, soo l’Italiano Silvio Berlusconi si è tenuto in disparte da questa folla. Nel far visita ai propri migliori amici – i Russi Vladimir Putin e Dimitri Medvedev – il primo Ministro dell’Italia ha scelto di congratularsi con Obama per la sua abbronzatura”. E ciò, aveva sentenziato il Financial Times, sarebbe dovuto bastare per mettere tra gli appestati non solo l’Italia, ma anche l’intero G8  – ormai “moribondo” per via della Presidenza Italiana – e in cui Obama non avrebbe ormai più svolto alcun ruolo.

E’, questo articolo del tanto saccente quotidiano britannico, un “pezzo” che fa riflettere. Tanto per cominciare, è la prova provata che a Londra si continua a non capire nulla della personalità del nostro Presidente del Consiglio. (Perché così – Presidente del Consiglio dei Ministri – si chiama nella Repubblica italiana il Capo del Governo, e non “Primo Ministro”: una dizione che si applica a quelle società socialmente e politicamente arretrate in cui c’è ancora un monarca ereditario che governa i suoi sudditi attraverso i suoi Ministri.) Figurarsi se Berlusconi, che – al G20 – non ha sopportato di confondersi nel mucchio della “foto di gruppo” – si mette in gara per essere il”favorito”  di Obama!

Ed è la prova provata che a Londra si continua a non capire nulla – come non si è mai capito nulla – dell’Italia e degli Italiani: che – certo ! – non hanno una diplomazia capace di farli e di farsi rispettare, ma ha dei cittadini – dei cittadini, e non dei sudditi – che con le loro capacità intellettuali, con la loro capacità di lavoro, con il loro genio tecnico cosi come con quello artistico sono in grado di fare si che il Presidente del paese più potente del mondo – pur non prendendoli neanche lontanamente in considerazione come “favoriti” – trovi del tutto naturale rivolgersi a loro in casi come quello in cui si tratta di salvare il principale settore industriale dell’economia occidentale.

“Patriottismo economico” in Germania ?

Portata a buon fine la trattativa-blitz per la Chrysler (un blitz, però, al quale i vertici Fiatlavoravano da un anno) tocca ora alle fabbriche europee della moribonda General Motors – laOpel tedesca e la Vauxhall britannica – trovarsi nel mirino dello spaventoso “orco” che turba i sonni del quotidiano della destra francese.  L’altro quotidiano transalpino, quello della “sinistra al caviale”, Le Monde, furiosamente e balordamente anti-Italiano, ha accettato l’equazione” Marchionne eguale orco” ed ha scritto che “l’appetito dell’emblematico capo della Fiat, sembra insaziabile. Ma ha dovuto riconoscere (3 maggio) che “la ristrutturazione del settore automobilistico è in marcia. E viene dall’Italia.”

Marchionne. come abbiamo visto, è convinto che il settore una volta ristrutturato consentirà di vivere solo ai grandi produttori capaci di mettere sul mercato tra 5 e 6 milioni di auto. Fiat eChrysler, una volta integrati, avranno una produzione totale di 4,4 milioni di autoveicolo, alla pari con il coreano Hyundai, dietro a Toyota, General Motors, Volkswagen e Ford.

Ciò spiega l’interesse per la Opel. Al cancelliere Schroeder, che ormai fa il lobbyista, così come ai socialisti e ai sindacati tedeschi, che colgono questa occasione per sventolare la loro sciocca arroganza, mascherata da “patriottismo economico”, va infatti fatto notare che l’accordo con il semisconosciuto fabbricante austro-canadese di ricambi Magna non è in alcun modo confrontabile con un accordo col gruppo Fiat-Chrysler, e che l’operazione americana della Fiat, il risanamento della Chrysler, non è affatto terminata, anzi è solo all’inizio, quale che sia in definitiva la decisione di Berlino.

 

La crisi oggi attraversata dal settore non si concreta infatti solo nella brusca caduta nel numero dei veicoli a motore che si prevede di vendere nel 2009 (55 milioni in tutto il mondo ) rispetto a quelli venduti nel 2008: ben 68 milioni. La gravità della situazione dell’industria automobilistica si può percepire a fondo solo considerando che, se tutte le fabbriche di automobili esistenti al mondo lavorassero alla loro capacità massima, il numero totale dei veicoli prodotti potrebbe ascendere ad oltre 95 milioni di unità. E’ evidente perciò che, in giro per il mondo, non mancano per un manager coraggioso e lucido come Marchionne occasioni alternative alla Opel, per realizzare il suo progetto di una Fiat globale in paesi dove politici e sindacalisti siano più realisti e meno arroganti.

Crisi di Detroit, o crisi dell’America ?

La verità sul caso Chrysler viene peraltro occultata anche agli Americani. Scrive ad esempio ilWashington Post:  “il fatto che l’amministrazione Obama è stata costretta a rivolgersi a un’azienda italiana, la Fiat, per trovare le competenze gestionali e progettuali necessarie a riportare in vita la Chrysler è un segno di quale pallida ombra di sé stessa era diventata quest’azienda che produceva automobili da ben 84 anni”. Si tratta di un’affermazione assai strana. E che suscita un immediato interrogativo: perché mai, se si  tratta soltanto del caso di un’azienda mal amministrata commercialmente e rimasta indietro tecnicamente, non si sono potute trovare nel più grande paese capitalista del mondo le competenze manageriali e le tecnolgie necessarie a rilanciarla?

In realta il caso Chrysler-Fiat non è solo una conseguenza della decadenza della terza casa automobilistica d’America, ma piuttosto il segno del generale disadattamento alle condizioni del mondo contemporaneo di tutto l’apparato industrial-tecnologico americano nel suo complesso. E questo disadattamento è la naturale conseguenza della scelta di specializzazione produttiva fatta dalla classe capitalistica degli Stati Uniti, che a partire dalla fine degli anni ’70 ha spostato verso la Cina tutti gli investimenti nel settore manifatturiero, per profittare dei salari infimi e delle condizioni schiavistiche in cui il regime ex-comunista mantiene la forza lavoro. A parte l’industria delle armi, er un trentennio non ci sono stati perciò in America che pochi o punti investimenti industriali. E non c’è quindi da sorprendersi se gli impianti esistenti sono vecchi, concepiti per prodotti superati, e disadatti – come gli stessi prodotti – alle sempre più pressanti esigenze di risparmio energetico.

2 Maggio 2009

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