LA GRAN BRETAGNA: UN PORTO DOVE RIFUGIARSI ?


LA GRAN BRETAGNA: UN PORTO DOVE RIFUGIARSI ?


GIUSEPPE SACCO



Anche per l’Inghilterra postbellica, l’affermarsi un egemone nella parte continentale del "piccolo capo d’Asia avrebbe significato la perdita di tutto il vantaggio strategico derivante dalla sua insularità

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Tra tutti coloro che oggi si augurano un 2021 migliore dell’anno che si è chiuso appena ieri, i Britannici hanno – del difficile frangente che tutti attraversiamo – una ragione in più per tenere “il labbro superiore ben fermo”.

To keep a stiff upper lip, nella lingua di Shakespeare, e nell’autorappresentazione del carattere nazionale britannico, significa la capacità di tenere sotto controllo le proprie emozioni. E soprattutto la capacità, specie nei momenti difficili, di non dare a vedere rabbia, dolore, delusione, e men che mai paura: tutti sentimenti che sarebbero comprensibili nel momento dell’uscita dall’Unione Europea, dopo ben quarantatré anni di una presenza che ha pesato moltissimo nella vita e nell’evoluzione del Vecchio Continente, e che ha molto favorito gli interessi economici delle isole britanniche. Ma sentimenti che non sarebbe sorprendente trovare in qualche misura controbilanciati da un orgoglioso recupero identitario e dalle speranze suscitate dalla ripresa, da parte di Londra, della navigazione solitaria nel mare aperto della politica mondiale.

La Brexit, in una prospettiva storica, era politicante inevitabile. Tanto per la trasformazione degli equilibri mondiali intervenuti dopo il crollo del blocco sovietico e la dissoluzione dell’Urss, quanto perché la Nato, priva ormai di ogni funzione contro una minaccia non più esistente, si era trasformata – per pura tendenza inerziale alla preservazione delle strutture burocratiche –, da alleanza difensiva che era, in una organizzazione collettiva di sicurezza tenente ad ancorare ad ovest i paesi dell’Europa centro orientale. Ed aveva così finito per creare un’ampia fascia di influenza tedesca, un near abroad della Germania riunificata proprio nel momento in cui la tendenza alla frammentazione prevaleva in altri paesi – l’Urss, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia – e si manifestava in Catalogna, in Scozia e nella ridicola Padania.

L’innegabile natura sempre ambigua e condizionata della partecipazione britannica alla costruzione europea, aveva peraltro fatto della Brexit – molto prima che il nome venisse coniato – un’ombra sempre aleggiante sul futuro delle istituzioni comunitarie.

Non si trattava solo del fatto che già quando si apprestavano i trattati di Roma, Londra si dava da fare per costruire un’organizzazione rivale, l’Efta (European Free Trade Association), destinata – nelle ambizioni della diplomazia britannica – a far fallire il progetto comunitario. Né si trattava solo di quella specie di valse-hésitation che ha accompagnato – dopo il breve periodo d’esclusione imposto dal Presidente francese de Gaulle – il lavorio finalizzato a ostacolare dall’interno lo sviluppo della Cee. Né, infine, dei numerosi opt-out, dei frequenti “chiamarsi fuori” su molte delle politiche comuni, in primo luogo Schengen, la politica dell’immigrazione e last but not least, la Moneta Unica.

Non si trattava solo di questo. Si è trattato anche, e soprattutto, dell’azione della signora Thatcher volta ad allargare a dismisura il numero dei membri della originaria Comunità Economica – che non a caso si era formata attorno ai tre paesi: alla Francia, sconfitta sin dalla prima ora della Seconda guerra mondiale; alla Germania, sconfitta e spartita tra i vincitori; e all’Italia, che aveva subito una debellatio totale, al punto da piombare nella guerra civile.

Spingendo, come ha fatto senza sosta, per moltiplicare il numero dei paesi membri della CEE, e poi della UE, Londra sapeva che avrebbe reso estremamente difficile un idem sentire tra tre principali perdenti del primo cinquantennio del secolo. E quindi un coordinamento  sovranazionale tra di essi, in qualsiasi campo ed in qualsiasi materia, allontanando così la nascita, sulla sponda orientale della Manica, di un nuovo soggetto politico, in prospettiva capace di diventare assai forte.

Ancorché sminuita nella sua potenza, privata del suo Impero, ed incapace di trovare un nuovo ruolo nel mondo, l’Inghilterra postbellica aveva continuato insomma nella sua storica strategia, fondata sull’idea cara ai teorici della geopolitica, secondo la quale l’affermarsi una potenza egemone nella parte continentale del piccolo capo d’Asia avrebbe fatto perdere al Regno Unito tutto il vantaggio strategico derivante dalla sua insularità. Ed era la stessa storica strategia che l’aveva dapprima, e per secoli, resa naturale alleata del mondo germanico per combattere la potenza della Francia. E poi – dopo la disfatta del regime bonapartista del 1870 e sino al 1945 – alleata alla Francia nella entente cordiale, contro la potenza prussiana e infine nazista, tendenti a stabilire l’egemonia germanica sull’intero continente.

Creare un idem sentire nato dall’amarissima lezione delle due guerre civili europee era invece proprio l’obiettivo perseguito dai padri fondatori dell’Europa a Sei,  cosicché l’intrusione britannica e i successivi allargamenti non potevano che alterarne profondamente la natura e gli ideali. E ciò,  già prima che Berlino – con l’implosione del blocco dell’est e della repubblica dei Soviet – si impadronisse di tutte le spoglie della Terza guerra mondiale; guerra non guerreggiata, ma in definitiva vinta dall’Occidente in virtù dell’evoluzione dell’economia mondiale.  Cioè, già prima che a Berlino si manifestasse nuovamente la tentazione di stabilire sull’Europa la propria egemonia.

Oggi, una volta che la Brexit è ormai definitivamente consumata, si ripropongono perciò alle Nazioni dell’Europa continentale alcu ne questioni che i Ventisette avrebbero dovuto porsi, e su cui avrebbero dovuto decidere, già prima dell’uscita di Londra, anzi già prima del referendum in cui si era impegolato l’incauto Cameron. E si tratta di sfide che comunque si erano poste in maniera non più rinviabile già nel  2016, anno fatidico su entrambe le sponde dell’Atlantico, in cui il referendum britannico e la elezione di Trump  alla presidenza degli Stati Uniti avevano segnato un vero e proprio collasso in atto al centro di un sistema-mondo che nell’ultimo quarantennio è stato caratterizzato dal tumultuoso processo di globalizzazione e di abbattimento delle frontiere,  col conseguente tentativo di negazione del principio di sovranità dei popoli e della loro stessa identità.

Contemporaneamente, il Regno Unito, dal  canto suo, trova di  fronte a sé nuove grandi sfide, rese più drammatiche dalle tremende conseguenze economiche e sociali che si profilano a causa della pandemia. Ma con la Brexit ha ancora una volta di affermato la propria singolarità, la capacità della società britannica di avventurarsi per prima e coraggiosamente su sentieri ancora sconosciuti. Si profila anzi come possibile che Londra diventi in un futuro non troppo lontano quel luogo la cui scomparsa, il giorno che fosse stato realizzato il governo mondiale, era già tanto temuta da Voltaire, il grande filosofo dell’età dei lumi che ha trascorso in esilio gran parte della propria vita: un porto in cui possa trovar rifugio il pensiero indipendente. Che è poi il luogo che più drammaticamente manca  nel mondo globalizzato, e ancor più in quello che si profila per il post-pandemia:  un mondo di ancora più grandi squilibri di ricchezza e di potere e di più stringenti controlli sull’informazione e sul pensiero.

Giuseppe Sacco

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