La garanzia di Galileo

La garanzia di Galileo


Giuseppe Sacco



E passato da non molto tempo, e mi ha spinto a fare un bilancio, un anniversario per me piuttosto importante, il cinquantesimo, dal giorno in cui, per la prima volta, sono salito su una cattedra a tenere una lezione universitaria.

Si trattava, naturalmente, solo di sostituire un professore “vero”, che quel giorno aveva un altro impegno. Né io sapevo che era quello l’inizio di un’interminabile carriera accademica. Poco più che ventenne, pieno di curiosità, e dotato di una certa capacità di scrittura, pensavo infatti allora di fare il giornalista. E poi, sin dalla scuola media, nutrivo per la categoria degli insegnanti scarsa considerazione. E pensavo che i miei genitori, che erano entrambi professori, avessero con quella scelta un pò sprecato le loro capacità. Anche se mio padre aveva la giustificazione di averla fatta, quella scelta professionale, nei lunghi anni di convalescenza dovuti al fatto di aver “preso i gas” al fronte, durante la Prima guerra mondiale.

La mia scarsa considerazione veniva dall’esperienza personale. L’impatto con i primi elementi dell’algebra – e con la persona, la Professoressa Falcone, che il caso aveva destinato al compito di insegnarmeli – aveva infatti lasciato, quando avevo si e no dieci anni, un segno nella mia memoria che ancora oggi rimane vivissimo. Lo ricordo, nonostante via passata quasi una vita, come se fosse ieri.

“Più e più fanno più, più e meno fanno meno, e meno e meno fanno più”: ci aveva detto la Professoressa Falcone, una donna pienotta e miope, dall’aria della madre di famiglia un po’ frustrata.

A questa affermazione aveva fatto seguito una spiegazione i cui termini non ricordo, ma che mi costrinse a fare ricorso alla mia immaginazione per poterle dare un senso. Senonché, il mio compagno al primo banco, Pantanella – ricordo ancora il suo cognome -, non doveva esserci riuscito, perché alzò la mano e disse: “Capisco più e più, e più e meno. Ma non capisco perché meno e meno dovrebbero fare più.”

A queste parole, la Professoressa Falcone assunse un’aria tra severa ed indignata. Il suo sguardo si fissò per qualche secondo su Pantanella in modo assai duro. “Stai zitto”, gli disse. Poi ebbi la sensazione che si rivolgesse verso di me, che ero seduto immediatamente al fianco di Pantanella. E a me parve di leggere nei suoi occhi un’interrogazione, cosicché spontaneamente chiesi: “vuole che lo spieghi io?”

Non l’avessi mai fatto!

Evidentemente no, non mi voleva interrogare. Infatti, con espressione e tono improvvisamente diventati furibondi, la Professoressa Falcone mi apostrofò: “zitto tu!”. Ed io dovetti dire qualcosa come “ma…”, perché si fece rossa in volto, assunse l’espressione di una furia e disse, anzi quasi urlò: “niente ma, screanzato ! Anzi, vai fuori della porta, e stacci fino a fine lezione”. Io mi guardai attorno, forse per vedere se avevo capito bene, e vidi Pantanella ancora con la mano alzata, e al banco a fianco, sempre in prima fila, una altro scolaro, Jacobitti con la bocca aperta. Il resto della classe, dietro alle nostre spalle si sganasciava invece dalle risate. Non capivo. Ma forse dovetti intuire qualcosa, perché, senza aggiungere parola, mi alzai e me ne andai.

Nessuno aveva mai visto la professoressa Falcone, quella donna quieta e rotondetta inferocita così. E alla fine dell’ora di matematica, Jacobitti, un ragazzo che veniva da Firenze, raffinato e studioso, cortese e non molto sincero, volle sapere cosa diavolo fossi stato sul punto di dire, da scatenare una reazione così. Ma in realtà non lo sapevo neanch’io, potevo solo dirgli cosa credevo di aver capito, insomma perché secondo me non era senza senso che meno e meno facesse più.

“E perché?”, chiese lui. “Perché se vado in bicicletta per trecento metri (la bici era la mia passione del momento) più altri duecento, dopo i primo trecento continuo a pedalare nella stessa direzione. Giusto?”. E lui annuì. ”Ma se debbo fare trecento metri meno duecento, dopo i primi trecento debbo fare dietro-front, insomma una conversione ad U.”

L’espressione “conversione ad U” dovette piacergli, perché si sbilanciò a dire. “Giusto!”, e ciò mi incoraggiò ad andare avanti nel mio discorsetto algebrico-ciclistico. “Ma allora, quel meno significa che si deve fare una conversione ad U”. E lui disse “….Si”. Con tono incerto, però.

Ma io ero ormai lanciato e non mi feci scoraggiare: “Ma allora, se uno si trova davanti a  due meno di fila, che cosa deve fare? Due conversioni ad U una dopo l’altra, deve fare!” Gli occhi di Jacobitti si illuminarono immediatamente: “Che vuoi dire? Che si va avanti nella stessa direzione? …. Ecco perché meno e meno fanno più!” Poi si oscurò di nuovo: “Ma che c’entra l’algebra con la bicicletta? Chi te l’ha raccontata questa storia”

“Nessuno. E non so neanche se ho capito bene”, confessai. “Ma voglio dire che se uno sta contando per misurare una quantità, e si trova dinnanzi un più, continua nella stessa direzione. Se incontra un meno torna indietro, e conta nell’altro senso. Ma se trova due meno, deve fare dietro-front due volte, cioè continua come prima.” Jacobitti annui e batte le palpebre due o tre volte, e concluse: “Ma chissà perché la Falcone si è incazzata così!”

La cosa sembrava finita lì. E invece no. La Professoressa Falcone parlò al Preside della mia “indisciplina”, per far inviare una richiesta ufficiale di vedere uno dei miei genitori. Ed a mia madre, che diligentemente si presentò, chiese esplicitamente s’io fossi cretino o pazzo. Al che mia madre – io avevo naturalmente raccontato la vicenda sia a lei che a mio padre – rispose diplomaticamente che avrebbe verificato. Ma cosa pensassero né lei ne mio padre non l’ho mai saputo, perché a casa non si dilungarono mai sull’argomento. Credo di aver capito solo più tardi l’interpretazione che essi davano dell’accaduto, così come le ragioni del loro silenzio.

A tornare sull’argomento fu invece Jacobitti, qualche giorno dopo. Mi disse che “si era informato”, che aveva parlato con un professore di matematica, e che la mia spiegazione stava in piedi. E aggiunse che, malignamente, questo professore gli aveva detto che probabilmente la Falcone voleva che la domanda sul perché meno e meno dava più non venisse neanche posta, perché lei una risposta non avrebbe saputo darla.

Io non dissi nulla; anzi feci quasi mostra di essere sorpreso. Ma quel che diceva Jacobitti confermava quello che era già più di un mio semplice sospetto. La Professoressa Falcone, che avrebbe dovuto insegnare a noi l’algebra, non sapeva spiegare uno dei suoi punti più elementari! E per questo aveva fatto quella faccia feroce! Per evitare ch’io insistessi sull’argomento.

Ex post, capisco che in quel momento – a dieci anni – mi caddero letteralmente le braccia. E capisco perché, da allora in poi, ho sempre guardato con un pò di sfiducia a quei professori che trattano male gli studenti, e tendono a tenerli a distanza. Non è tra loro e gli studenti che tentano di mettere un fossato; ma tra loro e le domande degli studenti più bravi, che potrebbero metterli in imbarazzo.

Questo spiegava poi anche perché i miei genitori non avessero dato nessuna importanza a quell’episodio, pur rendendosi conto che ne ero stato molto traumatizzato. Avevano ovviamente capito tutto, ma non volevano farmi perdere la fiducia nella scuola e negli studi. Ma non avevano fatto i conti col perfido Jacobitti, che nella sua nord-italica freddezza aveva messo rapidamente a fuoco il nocciolo della questione.

Tutto per me, senza parlarne a nessuno, tenni invece quello che era stato il trauma più forte: il fatto che, tranne Pantanella e Jacobitti, cioè i due che, assieme a me, sedevano nei primi banchi – considerati allora i banchi degli studenti migliori – tutta la classe fosse scoppiata a ridere quando io mio ero offerto di spiegare perché due meno consecutivi facessero più. Non certo è piacevole per un bambino di dieci anni che tutta la classe rida di lui. Forse per eccesso di timidezza,  trovarmi in quella situazione mi mise in un terribile imbarazzo.

Ma subito dopo, già quando ero fuori alla porta, in attesa che finisse l’ora della Professoressa Falcone, e ancor più dopo la conversazione con Jacobitti, a quella sensazione di imbarazzo si sostituì un sentimento diverso, un sentimento francamente innaturale in un bambino: un immenso senso di superiorità ed un profondo disprezzo. Che massa di imbecilli, pensai, e soprattutto che massa di servi! Non solo non avevano capito nulla della regola algebrica – il che, visto che non era stata data alcuna spiegazione, era in definitiva giustificabile –, ma non avevano neanche pensato di poterci arrivare per conto proprio, con le loro miserabili menti. Perché evidentemente questo era il giudizio che essi davano di sé stessi, visto che non si erano neanche posta la domanda del perché mai meno e meno potessero dare più, e visto che trovavano da sbellicarsi dalle risate il fatto che uno di loro avesse provato a capire per conto proprio, senza passivamente allinearsi all’ipse dixit di una professoressa che non aveva spiegato nulla.

In quella classe, nel cuore antico di Napoli, io e Jacobitti eravamo gli unici non-napoletani, anche se provenienti dai poli opposti, visto che la mia famiglia era originaria del Sud più profondo. E fu così del tutto naturale che il disprezzo ch’io incominciai da quel giorno a nutrire per quel gruppo di poveri ragazzi così spaventosamente asserviti all’idea che solo dall’autorità potesse venire la conoscenza, finisse per diventare il disprezzo del loro essere napoletani, per la loro plateale e incessantemente evidente napoletanità. Ma non passò molto perché  a farmi attenuare quel poco generoso sentimento ch’io ormai nutrivo nei confronti dei miei compagni di scuola, quasi a volare in loro soccorso, intervenisse un’altra insegnante, la professoressa Martini, che il caso aveva voluto avesse il ruolo di iniziarci, in prima media, alla lingua di Shakespeare.

La Professoressa Martini mi fece infatti capire cosa vuol dire il proverbio secondo il quale tutto il mondo è paese. E riuscì a farmi sospettare che forse ancora più “paese” della mia povera Napoli fosse addirittura l’America, allora celebrata come l’incarnazione di tutte le virtù.

Era, la Professoressa Martini, una donna estrosa e intelligente, totalmente dedita alla sua missione. E a lei debbo il fatto di essere già stato in grado, quando avevo neanche dodici anni, di leggere un paio di volte a settimana un quotidiano di lingua inglese che si pubblicava allora in Italia, il “Daily American”. La Martini, perciò, avrebbe probabilmente potuto ristabilire ai miei occhi l’immagine dell’insegnante – così gravemente compromessa come figura professionale dalla Professoressa Falcone – se, l’anno dopo, in occasione delle feste di Natale non ci avesse fatto imparare a memoria una poesiola allora molto in voga: Rudoph, the red-nosed reindeer.

A dieci anni, molte delle esperienze destinate a lasciare un segno profondo sono, di norma, già avvenute. In particolare, relativamente ai rapporti tra le persone. Ed una delle mie esperienze fatte alla scuola elementare aveva preparano il terreno perché Rudolph la renna dal naso rosso acquistasse, nella mia vita, una certa importanza: un’esperienza ripetuta ogni giorno durante l’ora di ricreazione, in quinta elementare, e che ha lasciato impresso nella mia memoria il nome di un ragazzo, Italo, che faceva parte di un’altra classe. Perché anche Italo, come la renna Rudolph, aveva una particolarità. Non aveva il naso rosso, però era un figlio di emigrati italiani ed era nato ad Addis Abeba. E per questo – nonostante il suo nome portasse evidente il segno dell’attaccamento dei suoi genitori alla Patria  – veniva considerato un Africano, e quindi isolato, deriso, insultato, sfottuto senza sosta, e spesso – al grido di “Viva l’Italia!” – pure picchiato. Mentre lui, solo contro tutti i suoi compagni di classe, coraggiosamente li confrontava gridando “Viva l’Africa!”.

La canzoncina insegnataci dalla Professoressa Martini è, in apparenza è una storiella innocente e buffa, almeno finché non si presta attenzione alla morale della favola.

 

Rudolph, the red-nosed reindeer

 


had a very shiny nose. 

And if you ever saw him, 


 

you would even say it glows. 


 

 


All of the other reindeer 

used to laugh and call him names. 


 

They never let poor Rudolph 

 


join in any reindeer games. 



 

 

Then one foggy Christmas Eve 

Santa came to say:

 


“Rudolph with your nose so bright, 

won’t you guide my sleigh tonight?” 





 

Then all the reindeer loved him 


 

as they shouted out with glee, 


 

Rudolph the red-nosed reindeer, 


 

you’ll go down in history!

 

 

Rudoph è dunque una delle renne del branco di babbo Natale, ma ha il naso rosso. Esso è quindi un “diverso”, come Italo, per nessun altro motivo se non una particolarità fisica di cui non è il alcun modo responsabile, così come Italo non aveva nessuna “colpa” di essere nati ad Addis Abeba. E per questo motivo – la canzoncina ci dice con tutta naturalezza, come la cosa più ovvia del mondo – tutti lo evitano, lo isolano, lo prendono in giro e lo insultano. Insomma, lo trattano come il povero Italo.

E tutto va nel più naturale dei modi nella più naturale delle società. Almeno fino a quando, una notte, Babbo Natale, che per un evidente “mandato del Cielo”, ha il potere incontestabile sul branco delle renne, lo sceglie per essere alla testa del suo traino. A quel punto la scena cambia, con una generale e spontanea esplosione di servilismo verso il potere, le altre renne non solo lo acclamano, consacrandone nientemeno che la presenza nella storia, ma incominciano addirittura ad amarlo!

Non saprei raccontare le mie confuse reazioni di allora, ma mi fu subito chiaro che ero stato ingiusto nel mio disprezzo per i miei poveri compagni di scuola. Che il loro servilismo verso il potere, la loro dipendenza mentale dall’autorità, il loro brutale comportamento nei confronti del povero Italo, non era solo frutto del loro essere napoletani (oggi direi dell’arretrato ambiente sociale e culturale della città). Era la stessa scuola, che educava al servilismo, e lo insegnava addirittura attraverso la persona che ci metteva in contatto con il modo anglosassone, con quell’America che veniva allora presentata come il modello di tutte le virtù civiche e come un vero e proprio strumento di liberazione. Solo anni dopo, ho grazie a Dio scoperto che – significativamente – l’autore di quella canzoncina è un pubblicitario, e che le parole sono state scritte su commissione di un department store

Né saprei ripetere oggi i termini con cui allora espressi a me stesso queste osservazioni, o almeno tentai di esprimerle. Ma mi parve che la persona più adatta cui esprimere i miei dubbi fosse il professore di Religione. E ricordo che, leggendo il testo che gli avevo portato, egli sollevò più volte le sopracciglia. Poi mi disse che avevo fatto bene a parlargliene, ma mi consigliò di non occuparmene più. “Altrimenti – mi disse – penseranno che la tua sia una famiglia di moralisti, e magari comunisti”. Ed io seguii il suo consiglio, anche se non capivo cosa c’entrasse la mia famiglia, visto che della renna Rudolph e del suo naso rosso avevo parlato solo a lui.

Era un consiglio dato con sincerità, e – potei più tardi valutare – era anche un buon consiglio, dato che eravamo nel 1949. Era un consiglio alla prudenza, ma al tempo stesso era un consiglio imprudente: perché non tenne conto che finiva per accrescere il mio atteggiamento di sfiducia e di critica verso i professori e tutta l’istituzione scolastica.

Fu dunque senza molto senso di trionfo che, cinquant’anni fa salì per la prima volta sulla pedana su cui – a quel tempo – troneggiava la cattedra. Ma vi salì con trepidazione e con orgoglio, perché in quella mia prima lezione sostituivo la persona che, che con pochi altri, uno solo dei quali ancora in vita, mi aveva col suo esempio dimostrato che si può essere Professori in un altro modo, che oltre a trasmettere quel poco che si sa, si può insegnare agli studenti a pensare con la propria testa, ad essere critici ed indipendenti, e che non ci sono limiti alla conoscenza, all’intelligenza e alla creatività di un uomo intellettualmente libero.

Non intendo qui tessere l’elogio dei miei maestri. Non è questo il proposito di queste righe. Mi preme solo spiegare come l’esempio di pochi Professori degni di questo nome sia bastato a farmi superare lo scetticismo e a farmi iniziare, in quell’autunno del 1963, la cinquantennale carriera di cui oggi sono in grado di fare una sorta di bilancio.

Di quell’esempio non ho trovato, una volta diventato professore, tra i miei colleghi molte conferme. Ma qualcuna, sì. Esistono dei professori che pensano liberamente, ed educano alla libertà. Sono pochi, ma ci sono. E sono spesso odiati dai loro colleghi dediti al servilismo, e dagli esponenti dell’istituzione.

Ho così potuto constatare che alcune caratteristiche della legislazione universitaria della Repubblica, quale la non-licenziabilità del professore universitario, pur rendendo possibili casi di evasione più o meno grave dagli obblighi di insegnamento e di ricerca, è stato – nello scorso cinquantennio – un potentissimo ed indispensabile strumento per garantire la libertà intellettuale e la creatività scientifica di quei pochi che vi si dedicano per proprio interiore bisogno intellettuale e morale.

Certo! Nella mia vita accademica ho visto ogni sorta di sconsolanti spettacoli. Ho conosciuto, non solo ”cattivi maestri”, che sotto l’etichetta della libertà di insegnamento operavano per la corruzione morale e politica degli studenti, e addirittura l’istigazione alla violenza e al terrorismo. Come ho conosciuto sociologi che si dicevano cristiani, e che insegnavano che la società non esiste, e che solo l’egoismo cieco deve guidare i comportamenti umani. Ho conosciuto falsi professori che erano in realtà agenti d’influenza – e talora servi sciocchi – di servizi segreti stranieri, come ho conosciuto perfetti analfabeti che si attribuivano abusivamente il titolo di “Prof”, e a cui venivano affidati insegnamenti per i quali non avevano la minima preparazione.

Ho insegnato in istituzioni straniere in cui, per rafforzare l’orgoglio nazionale, e quindi il consenso politico, si diffondevano luoghi comuni calunniosi e ridicoli contro paesi formalmente amici; così come ho visto posizioni universitarie attribuite, all’estero non meno che in Italia, per meriti puramente familiari. Ho visto accogliere come fossero portatori del verbo presunti specialisti francesi di cose italiane che pensavano che tutti mali dell’Italia venissero dal Sud, e in particolare “da Arcore, vicino Napoli”, e Professori di Relazioni Internazionali provenienti da prestigiose università inglesi che non sapevano che il Vaticano è uno Stato indipendente. Ho sentito responsabili di istituzioni universitarie incoraggiare gli studenti a copiare agli esami, come via verso il successo, ed altri spiegare che “comandare è fottere”, così come ho visto poveri riccastri dalla fortuna di origine sottogovernativa gestire università nella convinzione che i professori universitari potessero essere considerati la loro “forza lavoro”.

Ho conosciuto istituzioni in cui si proclamava di voler formare classe di dirigente e si producevano in realtà servi sciocchi, portaborse ed automi in vestito grigio, ed istituzioni che si pretendevano educative e che svolgevano invece opera di indottrinamento eversivo. Ho visto l’introduzione di metodi di valutazione dei professori da parte degli studenti che in realtà erano meccanismi di preparazione a carriere di “corvi” dediti alla scrittura di lettere anonime. Ho insomma visto ogni sorta di comportamenti puerili e deliranti da parte di presunti educatori e di presunte autorità accademiche.

Eppure, in queste stesse istituzioni non è stato mai possibile impedire di svolgere il proprio ruolo a chi avesse una diversa, più nobile e liberatrice, concezione dell’istruzione universitaria. E ciò grazie allo Statuto del Professore Universitario, sin ad oggi più o meno preservato dalla legislazione esistente; e grazie soprattutto alla insopprimibile freschezza di generazioni sempre rinnovantisi di studenti, sempre pronte a porre domande ingenue e imbarazzanti a professori ignoranti, e sempre pronte a reagire a veri stimoli intellettuali: insomma, studenti la cui vitalità il sistema non riusciva, nonostante ogni sforzo, a sopprimere.

Tutte le miserie umane che ho visto nell’Università mi sembrano insomma un costo che in definitiva merita di essere pagato. Ed è per questo che capisco coloro che chiedono un po’ di prudenza nelle “liberalizzazioni” universitarie. Perché la libertà di insegnamento che viene sfruttata da ogni asino, “grande manager”, diplomatico o generale che sia, per improvvisarsi professore e ragliare dall’alto di una cattedra, è in definitiva un piccolo prezzo perché, di tanto in tanto, venga garantito a Galileo di dimostrare l’erroneità del sistema copernicano, senza rischiare il rogo, e senza dover aspettare che sia scomparsa la minaccia dell’Inquisizione. O almeno senza essere cacciato dalla Cattedra.

Perciò, ora che – gettatomi a capofitto nel mondo cinese – si apre forse una nuova fase, affascinante e  entusiasmante, della mia vita, il bilancio che posso trarre da una scelta professionale, la scelta accademica compiuta cinquant’anni fa, mi appare largamente positivo.

Io non so, non posso giudicare, quanto valessero gli insegnamenti che ho dispensato, al meglio delle mie capacità, a un numero incalcolabile di studenti. Tutto quello che so è che – grazie alla “garanzia di Galileo, o più modestamente alla garanzia fornita dalla legislazione universitaria nell’ultimo mezzo secolo – ho potuto farlo senza piegarmi mai agli ordini di un padrone o alle direttive di un capo ufficio. E dubito che di tanta autonomia e libertà intellettuale avrei goduto se, come avevo pensato in gioventù, avessi seguito l’ambitissima carriera del giornalista.

 

One Response to “La garanzia di Galileo”

pur

Ferguson talked him round making it him stay with an extra season, but couldn’t
prevent him from finally giving in the lure of the most popular soccer club on the globe –
Real Madrid. The greatest earthquake risk in the United States besides the West Coast is across the New
Madrid Fault. Valencia Football Club – There is a lots of popularity
and craze for the club which is known as Valencia FC.

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